Scritto a gennaio 2015, originariamente per il libro "Rivarossi. Un percorso nel segno del mito", Ed. Editoriale Srl, Como, 2015, che ha raccolto testimonianze storiche e ricordi sul mondo del modellismo e dell'industria Rivarossi.
Dato che il pezzo che ho scritto mi pare di interesse anche per i lettori del sito, lo riproduco anche qui, accompagnato da alcune foto di nuova realizzazione.
| |||
|
|
|
|
Era il 31 agosto 1984, ero appena rincasato dalle consuete vacanze ad Arenzano e di lì a poco avrei iniziato la seconda liceo scientifico. Fu quel giorno che acquistai la E.444, la mia prima locomotiva Rivarossi. Naturalmente il mio modellismo ferroviario non incominciava con quella locomotiva: essa era invece un importante punto di arrivo, e insieme l'inizio di un capitolo nuovo, che mi avrebbe accompagnato per tutto il liceo e buona parte dell'università.
Nella mia storia ferroviaria c'è prima di tutto Märklin, fin dalla più tenera infanzia. Una diesel V200 e una BR 24 a vapore (3021 e 3003 per gli appassionati dei numeri di catalogo) sono state la mia base di gioco e di esperienza, ben prima di iniziare la scuola, e cose come mettere insieme i binari M sul pavimento della mia camera appartengono "da sempre" alla mia vita quotidiana. Arrivare da un mondo Märklin, a guardarla con l'esperienza del poi, significava soprattutto due cose: da un lato poter smontare e rimontare tutto, sempre, come parte integrante del gioco: si svitava una vite sul tetto o nel sottocassa e appariva il motore, il relè d'inversione, le spazzole, e soprattutto si capiva a che cosa servissero; dall'altro lato, significava dare per scontato che tutto funzionasse, che un treno deragliasse solo se si erano fisicamente staccate le rotaie e che il massimo dell'attenzione da prestare al motore fossero due gocce d'olio sul suo albero, al primo stridio.
Poi però c'era la realtà, la ferrovia vera: in terza media ero "uscito di casa" e avevo cominciato a osservare i treni veri: andavo a Milano Centrale e cercavo i convogli più celebri: i TEE, gli espressi internazionali. A ripensarci ora, mi accorgo che Rivarossi ha avuto un ruolo decisivo, prima ancora che per i suoi modelli, come fonte di conoscenza: le pagine di un catalogo 1975 - arrivato a casa quasi per sbaglio in mezzo ai consueti cataloghi Märklin - erano state per me una vera e propria enciclopedia dei mezzi FS: E.636, E.646, E.444, E.428... non mancava nulla! Ancora alle elementari, nelle mie vacanze cominciavo a poter dare un nome a quelle locomotive in castano e Isabella che vedevo comparire dallo scuro delle due gallerie agli estremi della stazione di Arenzano: immagini che conservo perfettamente nella memoria, come una specie di imprinting. Non a caso, nelle mie prime gite in Centrale ero disorientato dal veder apparire i rapidi per Venezia: ETR.220 ed ETR.250, mai riprodotti modellisticamente, mi erano del tutto ignoti.
A Natale '82 il primo acquisto importante di un mezzo italiano erano state le quattro carrozze TEE di Rivarossi: le carrozze senza la locomotiva, in modo da poterle far circolare ugualmente sui binari del sistema Märklin. Ma meno di due anni dopo ero pronto a fare il grande passo, che era teorico e pratico allo stesso tempo: prendere una locomotiva a corrente continua, riuscire a dotarla di pattino, collegare correttamente i fili e utilizzarla sui miei normali binari Märklin. Ci riuscii: il TEE Ligure, al vero scomparso a maggio 1982, ma su cui avevo fatto in tempo a viaggiare, riviveva ora al completo sul pavimento della mia camera. Da allora, non è esistita locomotiva in cui non sia riuscito ad avvitare o incollare un pattino.
Con le carrozze TEE e la E.444, Rivarossi mi mostrava in un colpo solo grandi pregi e insospettabili difetti. Il primo pregio era senz'altro la restituzione sorprendentemente evocativa del mezzo reale. Non necessariamente significava una riproduzione modellisticamente impeccabile: spesso i vetri non erano a filo della cassa, i particolari erano tutti ricavati nello stampo base anziché applicati, e poi c'era il ben noto problema della scala 1:80. Eppure la sensazione era quella di tenere in mano il treno vero: a questo contribuivano la raffinata precisione degli stampi, per i quali l'azienda era stata all'avanguardia già dagli anni '60, la colorazione e il grado di satinatura estremamente azzeccati, le piccole raffinatezze che la Rivarossi aveva introdotto proprio nei primi anni '80, come le targhe delle locomotive tampografate in argento e rosso; "FS E.444.017 - Officine Casaralta Anno 1971": lo sto rileggendo proprio ora su quella prima locomotiva.
Dei difetti avevo dovuto prendere atto abbastanza rapidamente: prima di tutto i deragliamenti non erano più un evento raro, e sulla mia ferrovia era calata un'ombra nuova di precarietà; è vero che far viaggiare le leggere carrozze in plastica sugli spartani binari Märklin M non era certo previsto dalle istruzioni, ma le cose facili non mi avevano mai attratto, e comunque di cambiare sistema non se ne parlava proprio. Ma soprattutto era l'indistruttibilità che veniva meno, e proprio a cominciare dalla mia prima E.444: nel giro di meno di due anni gli alberini degli ingranaggi d'ottone si consumarono a contatto con la lamiera del telaio del carrello, rendendo necessario l'acquisto di un nuovo carrello motore: un'evenienza che nella mia esperienza Märklin non avevo nemmeno pensato di prendere in considerazione.
La seconda metà degli anni '80 fu per me e per Rivarossi una specie di periodo d'oro, prima di entrare in una nuova "era moderna". Il tasso di novità prodotte allora non era nemmeno comparabile a quello a cui siamo abituati oggi: le consegne delle carrozze Tipo 1921 e dell'E.636 Roco furono pietre miliari diluite tra il 1986 e il 1989, mentre per il restante materiale era prassi comune rivolgersi di volta in volta all'unica produzione disponibile: le carrozze navetta di Lima, le locomotive a vapore di Rivarossi e così via. Zizzagando tra Roco, Lima e Rivarossi, in quegli anni mi procurai una specie di antologia della ferrovia italiana, la stessa che imparavo a fotografare al vero. Le mancanze estetiche e i difetti meccanici furono una scuola su molti fronti: aggiungendo particolari come ganci e corrimani, oppure ritoccando i colori dei dettagli, i modelli diventavano ancora più attraenti; d'altro canto ogni problema meccanico andava investigato a fondo e imparavo ad analizzarlo con voltmetro e amperometro: uno svio ricorrente o un picco di assorbimento di corrente "dovevano" avere una spiegazione, celare un guasto da risolvere.
Provai ad affrontare anche il problema della scala 1:80: sulle carrozze TEE si poteva limare lo spessore della ralla di supporto dei carrelli, ma sulle Centoporte arrivai alla soluzione radicale di "affettare" longitudinalmente le casse, rimontandole adeguatamente assottigliate. L'idea che di lì a poco venissero annunciate delle nuove Centoporte in scala esatta era considerata assolutamente irrealistica. Non fu così: nel 1991 arrivarono quasi a sorpresa le Centoporte Roco, facendo invecchiare di colpo quelle Rivarossi, pressoché gli unici modelli della mia collezione che ho gettato via. E' quasi simbolicamente con questo passaggio che pongo la fine di un'era, nella mia esperienza personale, ma forse anche più in generale nel modellismo italiano.
La nuova azienda Lima-Rivarossi, nei primi anni '90, portò una rivoluzione di luci e ombre: furono sicuramente positive le numerose novità, l'ormai scontato rispetto della scala 1:87 esatta, la qualità estetica. Lo furono un po' meno una meccanica moderna nell'impostazione, ma piuttosto fragile e precaria nella realizzazione, e i tanti piccoli errori progettuali: gli aggiuntivi da montare incompatibili con le rispettive sedi erano qualcosa di piuttosto sconcertante, oltre che alquanto scomodo...
Tre decenni più tardi, la mia ferrovia è soprattutto quella vera, per lavoro e per svago, e se voglio giocare con i modelli, preferisco lasciarmi appassionare dal fascino delle carrozze in lamierino di Märklin, dalla loro robusta indistruttibilità. Rivarossi rimane per me lo strumento importante con cui ho "preso le misure" della ferrovia vera, dei treni italiani che incontravo in stazione, e anche - perché no? - un interessante e fascinoso caso di studio del made in Italy. In ogni caso le mie carrozze TEE sono ancora qui, pronte a partire, e in tempi molto più recenti non mi è mai venuta l'idea di sostituirle con il nuovo modello "perfetto" di produzione attuale.