Viaggio in treno attraverso l'Italia,
lungo come la Transiberiana,
raccontato da Paolo Rumiz
Originale pubblicato da ‘Repubblica’
dal 2 agosto 2002 al 23 agosto 2002
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NUOVO La discesa su Sulmona raccontata per immagini.
La storia comincia all'alba, nel Mar di Sardegna, col traghetto "Aurelia" che si mette a vibrare dalla chiglia alla ciminiera in mezzo a nubi alte come torri e con l'odore di vernice, ruggine e salsedine che diventa odore di terra.
Per una volta, ladies and gentlemen, non allacciatevi le cinture. Don't fasten the seat belts. Si parte in treno, la Cenerentola dei trasporti. Si fa l'Italia in seconda classe, per linee dimenticate. Buttate dunque a mare duty free, gates, flights, hostess e check in. Lasciate le salette business a parlamentari e commendatur. Questo è un viaggio "hard", fatto di scambi, pulegge, turbocompressori e carbone.
Uno scossone e si parte nella luce bassa del mattino, la 668 fa tu-tun in mezzo a lecci, lentischi e rocce emergenti, lo scompartimento si riempie di profumo di mirto. E' deciso: d'ora in avanti viaggeremo su treni con finestrini apribili. Niente aria condizionata, niente treni che somigliano ad aerei. L'aereo è globale, totalitario, imperscrutabile. Sta in cielo, e il cielo è di nessuno. La rete di ferro, invece, è di tutti. E' il popolo, la nazione.
Il treno, non l'aereo, ha fatto l'Italia. Un piccolo treno come questo che arranca tra praterie e fichi d'India. Siamo in ballo. Il viaggio comincia.
Il trenino per Sassari mette in fuga fagiani e pernici, infila l'onda lunga della prateria, affonda in una trincea, ne riemerge come un U-boote grondante sotto nubi basse, nere, quasi atlantiche, entra in solitudini peruviane, sfiora alberi di sughero, sembra la locomotiva di Garcia Marquez che spaventa gli Indios in "Cent'anni di solitudine". Poi, sbatte contro montagne pietrose, si avvita su se stesso, sopporta curve e cambi di pendenza deliranti, impensabili nelle ferrovie del Nord. Non taglia il paesaggio, vi aderisce.
Arbatax, notte lunga di streghe, pioggia e fulmini sul mare. Poi un'alba nitida, spettacolare, con Arzana e Lanusei che luccicano sui monti come fioche nebulose. Noi si va lassù, sui picchi più misteriosi della Sardegna.
Un fischio, un brivido di ferraglia, si parte. E subito il bruco di ferro s'impenna, si contorce, si attorciglia su sé stesso. Il macchinista non vede mai oltre i cinquanta metri, sfiora cactus, asfodeli, trincee, strapiombi, attraversamenti di sentieri, gallerie, greggi, ponti, ginestre, passaggi a livello incustoditi. Ma il colmo è l'incrocio con la Statale, dove perdiamo la precedenza come un bus.
Si sale fra sterpaglia, ruggine, segni di incendi, traversine bruciate. In mano agli svizzeri, dicono, la linea sarebbe un gioiello. Ma a noi quest'incuria piace. Lascia intatta l'avventura. Sei in un labirinto che disorienta: credi di avere il paese sulla destra, poi entri in galleria e quando ne sbuchi te lo ritrovi a sinistra. Scopri che dentro la montagna la talpa ha fatto un giro intero su se stessa per guadagnar quota. L'Ogliastra è ai tuoi piedi. Poi scollini a quota mille, il Mediterraneo sparisce e tutto cambia.
Oltre un bosco di tassi secolari, le sorgenti del Flumendosa e le nubi, riecco il Gennargentu.
L'Agrigento-Catania frena sotto le stelle, scivola accanto a una stazioncina buia di nome "Agira", spegne i motori, diventa un'ombra nera nella prateria. C'è luce rossa sulla linea, bisogna aspettare. Grilli, silenzio, delizia orientale. Verso la notte mi appare una mezzaluna turca, una bici e una birra imperlata. E' il paradigma della Trieste-Istanbul che mi perseguita da un anno. Mi dico che non può esserci viaggio più perfetto. Ma è un attimo, perché nella stessa direzione, oltre la penombra delle colline, oltre la prima luminescenza dei paesi, immensa, fosforica nel cielo viola, compare un'altra fantastica icona. L'Etna, il Dio-vulcano.
Due mondi. In Germania e in Austria tutti i cartelli dicono "Bahnhof". In Sicilia no, le stazioni sono un miraggio, un'allucinazione. Quelle dell'Agrigentino, poi, un perfetto "così è se vi pare" pirandelliano. Nemmeno gli indigeni riescono a scovarle.
Che succede? In Sicilia indicano tutto farmacia, Carabinieri, orari delle messe - ma non la stazione. Nessun cartello. Omertà segnaletica totale. Ma come? Il presidente della Regione e persino sua moglie non vengono proprio da questo retroterra agrigentino? Quando arrivi in città, capisci. Ti aspetta una flotta luccicante di pullman ad aria condizionata. I cartelli sul parabrezza indicano mete da Intercity. Uno dice: "Agrigento-Roma, dieci ore senza cambi", ma è come se dicesse "senza rotture di palle". Di chi sono i bus? Di concessionarie ben innaffiate da finanziamenti pubblici e intortate in Regione. Ah.
Poi, al solito, la Sicilia ti frega. Con la bellezza. Che viaggio il nostro, fin qui ai confini della notte! Sole basso di poppa, praterie andaluse. E nelle stazioni, i resti anche di cinque serbatoi d'acqua, segno della sete africana che qui divorava le locomotive.
Intanto è arrivato il via libera: il motore si risveglia e il bruco luminoso riparte, con i due rubini rossi sulla coda. Si scava la strada verso l'altro mare, Catania barocca e la sua festa mobile.
A Reggio incrociamo un camion gigantesco, porta un vagone della metropolitana miliardaria di Catania. L'Europa mette i Tir sui treni? Niente paura, l'Italia mette i treni sui Tir.
11.40, via per le terre estreme, in uno scompartimento vuoto e rovente, senza l'acqua nelle toilette. Nessuna autostrada ti dirà mai la bellezza di questo mare cobalto visto dal treno, feroce e senza ripari. It's a long way, quanto è lunga la Calabria, a farla davvero. Un giorno intero non basta. Figurarsi l'Italia.
Locri, stazione di Locri. Su un condominio orrendo studenti mangiano arance e buttano sghignazzando le scorze sulla ferrovia. Constatiamo di viaggiare in una pubblica discarica che nessuno spazza, se non il treno medesimo. Il quale si rivela una grande macchina di verità: entrando nei luoghi sempre dal retrobottega, li svela impietosamente. Per capire l'Italia, basta davvero un finestrino.
Quelli con le scorze continuano, vorrei una cerbottana per fare giustizia da qui, come Gianburrasca col calamaio a pompa.
Riace, il paese dove i bronzi greci uscirono dal mare, è un buco deserto sotto un sole messicano. I segni della passata grandezza della Polis rendono più bruciante il nulla del presente. In nessun luogo del Mediterraneo la cosa pubblica fu più in conto di qui, nelle terre di Pitagora e Parmenide. Linguette d'oro trovate nei sepolcri della Magna Grecia davano le istruzioni per l'Aldilà agli uomini che avevano speso la vita per il bene comune.
E si riparte come in un blues sincopato, una corsa e una sosta, una battuta e una pausa, uno sferragliare e un silenzio di cicale.
Si va, Napoli ci mette fretta, non sappiamo se stiamo inseguendo o siamo inseguiti. Il locomotore buca la penisola sorrentina, si riaffaccia sulla spiaggia "nira nira". Il paesaggio è una favola, il vantaggio sull'autostrada incomparabile. Siamo sulla più antica linea d'Italia: la Napoli-Portici, che vola su sei milioni di abitanti, entra in un termitaio infinito, scopre il segreto della città verticale. Da una parte, sul lato mare, torri, montagne, pinnacoli di container sovrapposti; dall'altra, torri, montagne, pinnacoli di uffici della City partenopea.
Poi è Napoli Centrale. Strano, la stazione è semivuota. Dove sono i napoletani? Per capire, devi entrare nel termitaio. Sotto c'è Napoli Collegamento, capolinea della ferrovia regionale circumvesuviana. E sotto ancora, Napoli Porta Garibaldi con il metrò. E' qui che comincia il più straordinario labirinto d'Italia, 1250 chilometri di linee. La più alta densità nazionale. Un piatto di linguine, un baobab che cresce dappertutto.
Napoli è attaccata alla sua ferrovia. Figurarsi alla sua nuovissima metropolitana. I nonni ci portano i bambini in visita. Vi entrano in punta di piedi, come in chiesa. Si dice che quando si collegò il Vomero al suburbio di Secondigliano, il primo gridò all'invasione dei barbari, e invece non accadde nulla. Niente graffiti o devastazioni. La linea rimase pulita e silenziosa come una clinica svizzera. Lo stomaco di Napoli digerì tutto.
Usciamo sulla superficie, abbiamo viaggiato per otto ore dentro il piatto di linguine. Non contiamo più i chilometri, ora siamo davvero due matti in fuga per conto di Dio. Abbiamo l'odore del treno, Napoli ci possiede.
E già la costellazione di Sulmona ci chiama dal fondo del suo catino tra i monti. Luccica come Sarajevo dal monte Igman.
Per arrivare là in fondo, il treno deve compiere giri spettacolari. Più che un arrivo, il suo è un atterraggio. A un tratto, la ferrovia che scende incrocia l'autostrada che sale e le due pendenze, sommandosi, si esaltano. Ma il confronto è senza storia. Calcestruzzo contro mattoni, viadotti contro ponti, piloni contro arcate romane. La ferrovia segna l'ultima alleanza tra funzionalità ed estetica. L'autostrada, invece, decreta la sconfitta della bellezza.
NUOVO Guarda la discesa su Sulmona raccontata per immagini.
Il bello degli Appennini è che non senti altro rumore che il treno. Il nostro che va a Castel di Sangro la linea più alta d'Italia dopo il Brennero, 1260 metri - attraverso un silenzio così totale, così peruviano, che senti ogni cosa della sua vita interna. Le bielle, il motore, lo spiffero, le ruote, le sospensioni, il colpo tra le rotaie. Pare "Long train running" dei "Doobie Brothers", un metronomo lento e regolare come un aliante che ha preso la corrente ascensionale giusta.
Dopo Chieti, aria di tempesta e nubi nere in corsa sopra distese pastorali bosniache. Comincia il femore del Paese. Sentite che nomi: Molina Aterno, Castelvecchio Subequo, Vallecupa. La linea per l'Aquila è del 1875, passa per foreste primordiali, sfiora vecchi ponti a schiena d'asino, un fiume gonfio, verde e regolare. L'andare del treno è ancora il "cammina cammina" della fiaba di Pollicino. Per sessanta chilometri, nemmeno un capannone.
Mai un Eurostar, avevamo giurato all'inizio. Mai treni con finestre sigillate. E fatalmente il Roma-Ancona, arrivando a Foligno, punisce la nostra resa con quindici minuti di ritardo. Penso che in certi casi il verbo "andare" andrebbe declinato al passivo. Certi viaggiatori non "vanno", ma "vengono andati". La prova? Il nostro treno-supposta passa luoghi leggendari, ma nessuno guarda fuori. Il popolo dei santi e navigatori non sa più come collocarsi nello spazio. L'andare sembra un girotondo della sinistra, una cosa chiusa che si autoreferenzia.
Pensavo, beh, almeno dormirò. Errore. Nel treno-sommergibile sento tutto, anche i sospiri. Figurarsi i telefonini. Si svegliano tutti insieme, a ondate, parlano di lavoro anche in agosto. Annoto esilaranti dialoghi tra sordi.
Il trenino è la "990", la mitica Freccia delle Dolomiti, Milano-Cortina, carenata, color toffee. Ma che delusione. Viaggi nel paesaggio più straordinariamente italiano d'Italia e l'altoparlante, invece di spiegartelo, ti propina un'atroce musica americana anni Cinquanta. Risultato, i gitanti chiacchierano, i bambini digitano telefonini, altri fanno merenda, tutti sono indifferenti al paesaggio.
Ecco, l'Italia è anche questo. Gente simpatica e bambini grassi che viaggiano senza sapere dove sono, a bordo di un treno caciarone, dove la musica è scritta da altri. Ma che posso farci, this land is my land. Nel bene o nel male è la mia patria.
E quando Bruno, l'uomo che vedeva passare i treni, mi porta tra i locomotori, mi accorgo che l'elettricità ha cambiato il sesso alla ferrovia. La locomotiva ansima, è calda, ti cattura con le sue curve, è femmina. Il mostro freddo ringhia, è un parallelepipedo corazzato, maschio. Ha anche un dannato profilo bellico. Al punto che sui due musi simmetrici del "428" Prima Serie scopro, inconfondibile e ovviamente volitiva, la mascella del Duce.
L'avrete capito. I locomotori son figli del fascismo: del tempo, cioè, in cui l'Europa ci negò il carbone e l'Italia fu obbligata, in anticipo su tutti, a scegliere l'elettrificazione della rete. Poi l'autarchia finì in tragedia, coi soldati in treno che andavano a morire. Ma i mostri elettrici rimasero, insuperati. Oggi invece, con la deregulation, il Made in Italy su rotaia scompare dal paesaggio. Come le littorine, geniale invenzione del dopoguerra. Si danno le tratte in affitto a gestori privati, nella rete arrivano macchine straniere, e nessuno progetta più treni.
Montagna, nubi nere. La Costa Azzurra scompare, e subito la bestia su rotaia cambia natura. Dopo la baleniera delle Isole, il bruco appenninico e la lanterna magica, ecco il treno che diventa mulo. Sale nervoso, a strattoni, entra nel temporale, taglia con pazzeschi mezzacosta rocce verdi e rosa, s'aggrappa al nulla, s'intreccia al fiume gonfio che scende dal Col di Tenda attraversando un pezzo di Francia. Ce ne accorgiamo alla stazione di Saint Dalmas, quando a un tratto il vento sposa odore di muschio e baguettes. E' il segno delle Alpi.
Il tunnel buca l'osso delle Alpi, va dritto come una spada per nove chilometri. A metà percorso il macchinista rallenta, ci fa guardare fuori. E' il punto di scollinamento, l'unico da dove vedi entrambe le imboccature. Ed eccole infatti, lontane come due fiammiferi perduti nel buio siderale. Le gallerie sono tutte così: metà in salita e metà in discesa. Ai tempi del carbone, se la locomotiva perdeva colpi in galleria, era impensabile continuare. Per non morire intossicati bisognava uscire con la sola forza di gravità, motori al minimo.
Sappiatelo, italiani. Nel 1890 il grosso delle vostra rete era già ultimato. Una sfida pazzesca, per un Paese pieno di montagne. Dietro a quella sfida, un'idea grandiosa: federare le nostre diversità. Nel 1940 si raggiunse l'apice: 42 mila chilometri di rete, 330 milioni di passeggeri, 190 milioni di tonnellate di merci trasportate. Il fischio del treno raggiungeva ogni sperduto paese. Poi venne la gomma e la dismissione delle linee. Guardo la carta ferroviaria di Marco. Disegna un corpo scarnificato, senza più capillari, ridotto alle sole arterie. E gli orari? Quelli di ieri erano enciclopedie. Oggi sono opuscoli da ridere.
Già, Rovasenda. Come fai a dire di conoscere la Padania se non sei stato a Rovasenda? Come fai a non sentirla che ti chiama nella pioggia, con quel nome da romanzo di Calvino? E noi la cerchiamo, in un treno tra i fulmini che diventa una gabbia di Faraday, finché il suo campanile buca la pianura, in mezzo a pioppi indemoniati e a mille antifurti che friggono, eccitati dal temporale. Sulla pensilina, una ragazza magra, pallidissima, sandali alti e tailleur nero. Capelli biondi lunghi, trema di freddo. Sembra uscita da una storia di Tolkien.
Eccola Rovasenda. Quattro case, le Alpi lontane, due-stazioni-due che si guatano. Vicinissime, vuote e sfasate di otto metri di dislivello. Paolini racconta: c'erano due linee private. Per non incrociarsi, si scavalcarono con un terrapieno. Ne nacque un perfetto paradosso all'italiana. Rovasenda Alta e Rovasenda Bassa, nel piattume assoluto delle risaie.
A Mantova cena sul lago con lucciole. Discutiamo dell'elogio del Duce agli italiani "santi e navigatori", scolpito all'Eur di Roma. L'ultimo dei mestieri citati è "trasmigratori". Fu geniale mistificazione: non si poteva dire "emigranti", faceva pensare troppo a toppe sul culo e a valigie di cartone. Ma oggi la parola diventa vera. Ci aiuta a chiamare allo stesso modo quelli che partono e quelli che arrivano. Ci fa capire che pendolari e profughi, emigranti e turisti fanno parte della stessa macchina maledetta.
Pensierino della sera. Visto che nessuno dice più cose di sinistra, perché non rubare questa parolina alla destra? Deciso: siamo "trasmigratori" anche noi.
A Verona, rientriamo nell'imbroglio: di nuovo una stazione che tenta di somigliare a un aeroporto. La caramelleria, la sala internet, la banca, il video-game. Manca solo il "check in".
Si parte per Venezia e ricominciano gli eufemismi imbroglioni. Non finiscono di dirti "The italian train society wishes you a pleasant trip" in perfetto accento mestrino, che comincia uno spaventoso accumulo di ritardi. Spiegazione: "Heavy traffic", ma non è vero. Marco che è un ferroviere mangia la foglia. Succede che il treno davanti al nostro ha un guasto e a causa dei tagli non c'è il personale per gestire il sorpasso. Non sfuggiamo alla maledizione dei grandi flussi. Finora i treni veloci ci hanno sempre bidonato.
Poi il treno comincia a rallentare in vista di Mestre e arriva la presa finale per i fondelli. Ci ricordano gentilmente di prendere "i bagagli a mano". Di nuovo l'ombra dell'aereo, di nuovo il segno dei manager mentecatti. Quali altri bagagli esistono sui treni?
Siamo alla fine. Abbiamo obliterato 76 biglietti, preso 58 convogli, viaggiato per 210 ore incluse le attese in stazione.
Siamo alla fine, al Mar del Giappone mancano solo 376 chilometri. Ma in compenso il nostro treno-ormografo ci ha ridisegnato l'Italia. Ci ha mostrato il meglio e il peggio del Paese.
Abbiamo visto un immenso patrimonio dilapidato, centinaia di stazioni chiuse o a pezzi, treni aprirsi la strada in una pubblica pattumiera e in grandi paesaggi dimenticati.
Qui a Nordest poi, è la fine di tutto. Un secolo fa, tra Roma e Vienna c'era il doppio di treni. Oggi il "Remus" passa come un ladro alle due di notte alla stazione di Udine senza fare nemmeno servizio passeggeri. Da Trieste a Praga all'inizio del '900 si impiegavano dodici ore, oggi molte di più.
Ma arriva il colpo di scena. In mezzo a un tunnel mi accorgo di avere sbagliato i calcoli. I 7480 chilometri scadono prima del rientro in Italia. Tre soltanto. Quanto basta per farci scendere a Nova Gorica, lato sloveno di Gorizia, la piccola Berlino tagliata dal confine. Il nostro fine-corsa è la stazione della Transalpina, che fino al 1989 sbatteva in faccia agli italiani la stella rossa del comunismo slavo.
Che fare? Marco ha gli occhi lucidi. Lo guardo, le parole non servono. Siamo viaggiatori ribelli, dunque clandestini anche noi, musi neri anche noi. E allora via. Un salto e siamo oltre. L'unico rumore è uno strappetto sui jeans.