Scritto a maggio 2020
E' ormai passato più di un secolo dalla fine della prima guerra mondiale. Eppure la Grande Guerra ha permeato tutto il '900, decretando la fine di un'epoca - la Belle Époque - e aprendo la strada alle nuove dittature che avrebbero reso ancor più drammatico il seguente trentennio. Naturalmente la guerra è stata ripercorsa da innumerevoli libri e film: in questa minuscola antologia ne ho scelti quattro, diluiti anch'essi in quasi un secolo:
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La Guida d'Italia, la grande opera divulgativa del Touring Club Italiano iniziata nel 1914, si scontrò quasi subito con gli eventi bellici. Il volume delle Tre Venezie, uscito nel 1920 rivisita quasi in tempo reale le distruzioni del Carso, anche se attraverso l'inevitabile intonazione patriottica di quegli anni. Vent'anni più tardi, in chiara controtendenza con la dottrina fascista, esce il romanzo autobiografico di Emilio Lussu (1890-1975); poi nel 1959 il cinema, grazie a Mario Monicelli, affronta il tema della Grande Guerra in un'ottica non retorica, rompendo per la prima volta il tabù di una guerra "eroica e vittoriosa", come fino ad allora era stata rappresentata al cinema (e traendo ispirazione, tra l'altro, proprio dal libro di Lussu). Infine non mancano certamente i saggi storici e di divulgazione moderni, tra i quali ho scelto quello recente di Aldo Cazzullo.
I testi delle quattro fonti sono intercalati in modo (semi)casuale e distinti per colore.
Scena iniziale all'ufficio di reclutamento
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La strada, ora, si faceva ingombra di profughi. Sull'Altipiano d'Asiago non era rimasta anima viva. La popolazione dei Sette Comuni si riversava sulla pianura, alla rinfusa, trascinando sui carri a buoi e sui muli, vecchi, donne e bambini, e quel poco di masserizie che aveva potuto salvare dalle case affrettatamente abbandonate al nemico. I contadini, allontanati dalla loro terra, erano come naufraghi. Nessuno piangeva, ma i loro occhi guardavano assenti. Era il convoglio del dolore. I carri, lenti, sembravano un accompagnamento funebre. La nostra colonna cessò i canti e si fece silenziosa. Sulla strada non si sentiva altro che il nostro passo di marcia e il cigolio dei carri. Lo spettacolo era nuovo per noi. Sul fronte del Carso, eravamo noi gli invasori, ed erano slavi i contadini che avevano abbandonato le case, alla nostra avanzata. Ma noi non li avevamo visti. |
Dal diario di guerra del tenente Carlo Salsa: «Passato l'Isonzo, i reggimenti furono scagliati contro questa barriera del Carso. Falangi di giovani entusiasti, ignari, generosi, contro questa muraglia di pietre e fango. Il terreno conquistato era coperto di morti; quasi tutti i reggimenti vennero pressoché annientati: non si poteva andare più oltre, senza artiglieria sufficiente, senza bombarde, senza nulla. Ma i comandi sembravano impazziti. "Avanti!". Non si può! "Che importa? Avanti lo stesso." Ma ci sono i reticolati intatti! "Che ragione! I reticolati si sfondano coi petti o coi denti o con le vanghette. Avanti!" Era un'ubriacatura. Coloro che confezionavano gli ordini li spedivano da lontano; e lo spettacolo della fanteria che avanzava, visto al binocolo, doveva essere esaltante. Non erano con noi, i generali; il reticolato non l'avevano mai veduto. I nostri soldati si fecero ammazzare così a migliaia, eroicamente, in questi attacchi assurdi che si ripetevano ogni giorno, ogni ora, contro le stesse posizioni». |
Il *S. Michele è 30 min. più a NE di S. Martino e vi si giunge attraverso il Bosco Ferro di Cavallo di cui non restano che pochi monconi di tronchi : *panorama immenso,· grandioso dalle Carniche e dalle Giulie alle Lagune e all'Istria. Sorgerà qui il grande Monumento nazionale al Fante. Sotto la cima, grandi caverne. Una camionabile scende a svolte a Peteano e alla Stazione di Rubbia, pag. 182. Il Castello di Rubbia è ormai distrutto. La strada da qui a Merna e da qui a Savogna era assai battuta dalle artiglierie. Rubbia è presso la confluenza del Vipacco nell'Isonzo, ove tanto sangue fu versato. Il paese era quasi unito a Savogna, di cui ancora rimase qualche casa; donde per S. Andrea si può ritornare a Gorizia per carrozzabile se non si prende la ferrovia a Rubbia. Da S. Martino una camionabile scende a Sdraussina, km. 60, già in rovina, passando alla sinistra del celebre Bosco del Cappuccio, anch'esso ormai sparito e ridotto a tronchi nudi e spezzati. |
Io chiesi schiarimenti sulla posizione del monte più alto, che egli mi aveva detto essere Monte Fior. - Là vi sono i nostri. Questo è certo. Gli austriaci non vi sono ancora arrivati. Il monte è alto duemila metri. È perciò che i nostri comandi lo chiamano la «Chiave dell'Altipiano». Il tenente colonnello mi indicava le posizioni con la bottiglia. Frequentemente, avvicinava la bottiglia al bicchierino come se volesse riempirlo, ma, ogni volta, arrestava a tempo la bottiglia, e il bicchierino rimase sempre vuoto. - Su quella «chiave», i comandi, per non perderla, hanno ammassato una ventina di battaglioni, mentre qui, alla porta, tutti compresi, non siamo che quattro gatti. L'idea è sbagliata di sana pianta. Ma è scritto nei testi che, tenendo la vetta d'una montagna, si possa impedire al nemico di passare per la vallata sottostante. Vede, laggiù, lo sbocco di Val Frenzela, sotto di noi? Fra lo sbocco e Monte Fior, vi saranno, in linea d'aria, non meno di quattro o cinque chilometri. Se gli austriaci forzano lo sbocco, la «porta», vi possono infilare tutta un'armata, senza avere un ferito, mentre la «chiave» resta appesa al muro. Lei non beve, eh? Lei non beve! - A me pare che, se noi abbiamo, lassù, venti battaglioni, qui, gli austriaci non possono passare. - E come lo impediscono i nostri battaglioni, da lassù? Con l'artiglieria? Ma non ve ne abbiamo un solo pezzo e non ve ne potrà essere uno solo, ché mancano le strade. Con le mitragliatrici e i fucili? Armi inutili, a tanta distanza. E allora? Allora, niente. Perché, se noi siamo degli imbecilli, non è detto che di fronte a noi vi siano comandi più intelligenti. L'arte della guerra è la stessa per tutti. Vedrà che gli austriaci attaccheranno Monte Fior, con quaranta battaglioni, e inutilmente. E siamo pari. Questa è l'arte militare. |
Sono decine e decine gli assalti inutili, preceduti da quel grido - «Savoia!» -lanciato più per farsi coraggio che per intimorire il nemico, «quasi a invocare Dio a essere testimone del martirio» ha scritto un reduce. «Alla fine un muro di ferro li blocca e una nube di fuoco li avvolge.» L'imperizia dei comandi è tale che interi reparti vengono dimenticati. Paolo Caccia Dominioni nel suo diario racconta la vicenda della 4a sezione lanciafiamme, inviata a Quota 126 del Vippacco, sul Carso. «Andarono su in settanta, e poi, chissà per quali strane successioni di passaggi da una dipendenza all'altra, vennero scordati. Dopo novantadue giorni di trincea, in pieno inverno, si trovò chi poteva assumere la responsabilità di conceder loro il riposo: e calarono giù i dieci superstiti, veri scheletri ricoperti di fango, deboli macchine senza volontà. Dopo poco li rispedirono a quota 89 di Monfalcone». |
Dialoghi di Giovanni Busacca (Vittorio Gassman)
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Sono almeno sei i casi (il più celebre è quello raccontato da Emilio Lussu in Un anno sull'altopiano) di austriaci che interrompono il fuoco e gridano agli italiani di tornare indietro, di non farsi massacrare così. Non si registrano episodi analoghi sugli altri fronti della Grande Guerra, tranne il caso di un ufficiale turco che ordinò di risparmiare i fanti australiani a Gallipoli. Questo non significa che gli austriaci e i vari sudditi dell'imperatore fossero combattenti più teneri (anzi, nei corpo a corpo erano spietati, in particolare i bosniaci, riconoscibili dal fez; i nostri nonni li temevano al punto che spesso anche gli ungheresi o i boemi o i croati indossavano il fez, per terrorizzarli). Significa che su nessun fronte furono condotti assalti sconsiderati come quelli voluti dai nostri generali sul Carso e sulle Alpi trentine. |
Il tenente colonnello parlava lentamente, e beveva lentamente. Beveva a sorsi, come si centellina una tazza di caffè. - Io mi difendo bevendo. Altrimenti, sarei già al manicomio. Contro le scelleratezze del mondo, un uomo onesto si difende bevendo. È da oltre un anno che io faccio la guerra, un po' su tutti i fronti, e finora non ho visto in faccia un solo austriaco. Eppure ci uccidiamo a vicenda, tutti i giorni. Uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi! È orribile! È per questo che ci ubriachiamo tutti, da una parte e dall'altra. Ha mai ucciso nessuno lei? Lei, personalmente, con le sue mani? - Io spero di no. - Io, nessuno. Già, non ho visto nessuno. Eppure se tutti, di comune accordo, lealmente, cessassimo di bere, forse la guerra finirebbe. Ma, se bevono gli altri, bevo anch'io. Veda, io ho una lunga esperienza. Non è l'artiglieria che ci tiene in piedi, noi di fanteria. Anzi, il contrario. La nostra artiglieria ci mette spesso a terra, tirandoci addosso. -Anche l'artiglieria austriaca tira sovente sulla propria fanteria. -Naturalmente. La tecnica è la stessa. Abolisca l'artiglieria, d'ambo le parti, la guerra continua. Ma provi ad abolire il vino e i liquori. Provi un po'. Si provi. |
Giovanni Busacca (Vittorio Gassman) e Oreste Jacovacci (Alberto Sordi)
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Dal Monte Santo scendendo a Gargaro e Britof (circa 5 km. da M. Santo) per la camionabile che va prima verso il Vodice poi ritorna a SE, dopo di avere passato le rovine di questi due già ameni paesi si può intraprendere la lunga traversata dell'Altipiano della Bainsizza salendo il ciglione S fino nella conca di Ravne m. 521, km. 8,5 (distanza approssimativa dal M. Santo). Nel salire si lasciano a destra i resti di Bitez e di Zaberdo. Da Ravne una camionabile sale a SO al Kobilek m. 605, ove tanto si combatté, e si congiunge alla strada. del M. Santo e di Plava. Intorno a Ravne, belle praterie, e, nel paese, una curiosa grande fontana costruttavi dalla principessa Anna Maria di Parma. Lasciando sulla sinistra Dragovico, quasi intatto, poi una dolina, la conca si rialza dalla quota 502 a Baie m. 580, km. 10,5 circa, visibile dal suo massiccio campanile a loggia. Da qui, verso E, si stende un terreno ondoso carsico a praterie magre, fino al ciglione verso il Vallone di Chiapovano. Le comunicazioni carrozzabili non risultano ancora (1919) allacciate con Lokovetz. |
Dialoghi tra soldati
Dopo l'attacco, a cui Giovanni e Oreste non hanno partecipato, perché erano a valle a prendere il filo spinato
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Io ero in linea, sul punto più elevato di Monte Spill, e guardavo Monte Fior. Gli austriaci vi affluivano disordinatamente. In poco meno di mezz'ora, la linea da noi abbandonata fu occupata da un gruppo di battaglioni. Tutta la cresta del monte fu gremita di truppe. Credo fossero le sei o le sette del pomeriggio. Nelle posizioni nemiche, io notai un fermento insolito. Che avveniva? I battaglioni s'agitavano, urlando, salutavano. Tutta la massa, come un sol uomo, si levò in piedi e un'acclamazione ci venne dalla vetta: - Hurrà! Gli austriaci agitavano i fucili e i berretti, verso di noi. - Hurrà! Io non mi rendevo conto di quella festa. Essa era qualcosa di più che la gioia per una posizione conquistata, senza contrasto. Perché tanto entusiasmo? Io mi voltai indietro e capii. Di fronte, tutta illuminata dal sole, come un immenso manto ricoperto di perle scintillanti, si stendeva la pianura veneta. Sotto, Bassano e il Brenta; e poi, più in fondo, a destra, Verona, Vicenza, Treviso, Padova. In fondo, a sinistra, Venezia. Venezia! |
Ci erano tanto vicini e noi li potevamo contare uno per uno. Nella trincea, fra due traversoni v'era un piccolo spazio tondo, dove qualcuno, di tanto in tanto, si fermava. Si capiva che parlavano, ma la voce non arrivava fino a noi. Quello spazio doveva trovarsi di fronte a un ricovero più grande degli altri, perché v'era attorno maggior movimento. Il movimento cessò all'arrivo d'un ufficiale. Dal modo con cui era vestito, si capiva ch'era un ufficiale. Aveva scarpe e gambali di cuoio giallo e l'uniforme appariva nuovissima. Probabilmente, era un ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da una scuola militare. Era giovassimo e il biondo dei capelli lo faceva apparire ancora più giovane. Sembrava non dovesse avere neppure diciott'anni. Al suo arrivo, i soldati si scartarono e, nello spazio tondo, non rimase che lui. La distribuzione del caffè doveva incominciare in quel momento. Io non vedevo che l'ufficiale. Io facevo la guerra fin dall'inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall'altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma così, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandonò ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è probabile che avrei tirato immediatamente senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare. L'ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta creò un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo anch'io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch'io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare, ch'era automatico divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L'indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare. Certo, facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e politicamente. La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità ingrate ma inevitabili della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati. La facevo dunque, moralmente, due volte. Avevo già preso parte a tanti combattimenti. Che io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di vedetta e tirassero bene, se il nemico si scopriva. Perché non avrei, ora, tirato io su quell'ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la guerra e a farla fare agli altri. No, non v'era dubbio, io avevo il dovere di tirare. E intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero affatto nervoso. La sera precedente, prima di uscire dalla trincea, avevo dormito quattro o cinque ore: mi sentivo benissimo: dietro il cespuglio, nel fosso, non ero minacciato da pericolo alcuno. Non avrei potuto essere più calmo, in una camera di casa mia, nella mia città. Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un uomo! Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell'alba si faceva più chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare cosi, a pochi passi, su un uomo ... come su un cinghiale! Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all'assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: «Ecco, sta' fermo, io ti sparo, io t'uccido» è un'altra. È assolutamente un'altra cosa. Fare la guerra è una cosa uccidere un uomo è un'altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo. Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s'erano formate due coscienze, due individualità, una ostile all'altra. Dicevo a me stesso: «Eh! non sarai tu che ucciderai un uomo, cosi!» Io stesso, che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l'esame di quel processo psicologico. V'è un salto che io, oggi, non vedo più chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra: - Sai ... cosi... un uomo solo ... io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose: - Neppure io. Rientrammo, carponi, in trincea. Il caffè era già distribuito e lo prendemmo anche noi. La sera, dopo l'imbrunire, il battaglione di rincalzo ci dette il cambio. |
Giovanni Busacca (Vittorio Gassman) e Oreste Jacovacci (Alberto Sordi), avvistando un soldato austriaco
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La fine di luglio e la prima quindicina d'agosto, furono per noi un riposo lungo e dolce. Non un solo assalto in quei giorni. La vita di trincea, anche se dura, è un'inezia di fronte a un assalto. Il dramma della guerra è l'assalto. La morte è un avvenimento normale e si muore senza spavento. Ma la coscienza della morte, la certezza della morte inevitabile, rende tragiche le ore che la precedono. Perché si erano uccisi i due soldati della 10a? Nella vita normale della trincea, nessuno prevede l a morte o la crede inevitabile; ed essa arriva senza farsi annunciare, improvvisa e mite. In una grande città d'altronde vi sono più morti d'accidenti imprevisti di quanti ve ne siano nella trincea di un settore d'armata. Anche i disagi sono poca cosa. Anche i contagi più temuti. Lo stesso colera che è? Niente. Lo avemmo fra la I e la II armata, con molti morti, e i soldati ridevano del colera. Che cosa è il colera di fronte al fuoco d'infilata d'una mitragliatrice? |
Bastarono i primi giorni di guerra per riempire gli ospedali militari di mutilati. La rudimentale medicina dell'epoca, anche se il tempo e l'esperienza permisero in seguito ai chirurghi di guerra di operare con maggior discernimento, induceva di continuo ad amputare. Gambe e braccia venivano segate con una frequenza impressionante, usando anestetici rudimentali, in ospedali da campo dalle condizioni igieniche precarie. È uno spettacolo che poche generazioni ricordano, ma per anni in Italia fu frequente vedere per strada mutilati di guerra. Tranne alcuni, che furono accuratamente nascosti - allo sguardo, alla contabilità burocratica, alla ricerca storica -, al punto che ancora oggi non è facile trovare documentazione su di loro. Sono i 5440 mutilati al viso. Le ferite al volto, insieme con quelle all'addome che portavano di solito a una morte lenta e dolorosa, erano le più atroci. La chirurgia del viso era ancora agli inizi. |
Giovanni Busacca (Vittorio Gassman) e Costantina (Silvana Mangano)
(incontro finale)
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Nell'anno che va dalla rotta di Caporetto alla fine della guerra, migliaia di donne friulane e venete furono violentate, quasi sempre da soldati in gruppo. Un milione di italiani si ritrovò alla mercé di un esercito di occupazione. Tedeschi, ungheresi, croati, bosniaci, austriaci battevano la campagna e i paesi alla ricerca di giovani donne; ma furono stuprate anche anziane di ottant'anni e bambine di sette. Quando padri e mariti tentarono di protestare con gli ufficiali asburgici, si sentirono ridere in faccia: «I soldati devono pure divertirsi», «l'Italia non ha nessuna morale da insegnarci». I figli nati dalle violenze furono tanti che si dovette aprire un orfanotrofio apposta per loro, gli «orfani dei vivi». Gli uomini non volevano saperne dei «piccoli tedeschi». Ma le madri spesso venivano di nascosto a vederli, a baciarli, a chiedere loro notizie. Finì che il segretario dell'Istituto scrisse alle donne di non farsi più vedere: i bambini ormai cresciuti chiedevano della mamma e volevano andarsene con lei. La tragedia delle terre occupate durante la Grande Guerra non è rimasta nella memoria della nazione. Dimenticate la fame, le pene, le impiccagioni delle «spie», colpevoli solo di aver lasciato una lanterna accesa la notte, violando l'ordine dell'oscurità totale. Il bestiame fu confiscato già a gennaio. Sequestrati verdure, noci, vino, olio. Rubato sia il foraggio sia il concime. A marzo venne portata via pure la biancheria di casa: ai friulani e ai veneti al di là del Piave rimasero solo i vestiti che avevano addosso. Mangiavano topi, cani, gatti, erbe di campo. I più disperati si spostavano verso il fronte per elemosinare un po' di cibo. In diecimila morirono di fame e di inedia, altri 12.500 per infezioni e malattie legate alla denutrizione o ai crimini dell'esercito occupante. La maggior parte delle donne non raccontò mai quel che aveva sofferto, né ci fu uno scrittore o un regista a fermare storie come quella della Ciociara nella seconda guerra mondiale. Ci fu una «Reale Commissione d'inchiesta», che raccolse testimonianze al fine poco nobile di quantificare i danni di guerra da chiedere al nemico. Degli stupri si tratta nel quarto volume della relazione, intitolato Delitti contro l'onore femminile (del resto il codice penale classificava la violenza sessuale tra i «delitti contro il buon costume e l'ordine delle famiglie»; e si dovette attendere il 1996 perché la legge italiana la considerasse un reato contro la persona). Il quadro, pur tragico, che esce dall'inchiesta è molto inferiore alla realtà. Sindaci, parroci, carabinieri concordano nel dire che la gran parte delle donne violentate rifiutano di parlare; oltretutto le testimonianze erano raccolte solo da uomini. I medici sostengono di aver curato decine di ragazze che negavano di aver subito violenza, o ammettevano l'aggressione ma precisavano di «aver resistito». Il pudore e la mentalità del tempo isolò le vittime e rese ancora più amara la loro sofferenza. Comunque furono 735 le donne che ebbero la forza di rendere la loro testimonianza; molte sono raccolte nel libro di Michele Strazza Senza via di scampo. Gli stupri nelle guerre mondiali. |
Finale
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