Un breve frammento, ripreso dall'articolo "Con il mare nel finestrino", Supplemento "La natura, i paesaggi. Liguria" al numero 256 di Airone, Ed. G. Mondadori, 2002.
Isolatori bianchi, alle sandaline de' sostegni, fanno un'allineata di perle come a voler agghindare la riviera.
Il casello pitturato di rosa, col numero grande, del suo chilometro, attende i traini previsti. Ma nessuna vela è nel mare.
Sbucato dalla galleria delle Pievi, l'elettrico scivola già col pantografo dentro il fornice buio della successiva, portandovi la sua corsa inderogabile, illividita da scintille violette. Un vagone dopo l'altro, il convoglio si snoda davanti il Dente del Lupo: riapparito appena dentro il giorno, lo perde: lascia il mare, entra nel monte. La zanna riemerge sola e nera dall'indaco, coronata di furore e di spuma, a dar travaglio al pilota.
E' la storia di un ragazzo, Serafino, che giunge a Milano da un paesetto del sud, al principio degli anni Sessanta. Del libro, si riportano qui le pagine iniziali, in cui Serafino, appena uscito dalla stazione centrale, fa conoscenza con i tram di Milano.
Il testo è corredato da cartoline in bianco e nero della stessa epoca.
E così, Milano.
Se l'era immaginata diversa. Non sapeva come. Diversa. Davanti gli stava, invece, un piazzale dove le piante crescevano quadre e i fiori ordinatissimi, ma tutt'attorno sorgevano case molto meno ordinate: alte, basse, di lusso, estremamente modeste, con sopra, a lettere enormi, nomi che lui pure conosceva per averli letti sulla carta delle caramelle o sulla porta del gelataio. E poi una strada larga, dritta, con piantata da un lato una casa tanto alta che lui non l'aveva nemmeno vista sulle prime, come accade per le cose troppo evidenti.
Ediz. Bromofoto - viaggiata 20 ottobre 1960 |
Con la mano libera dalla valigia tirò la manica della sorella: - Guarda! - Embè? - fece lei, pur avendo visto tanto mondo quanto lui e cioè Balzotrecase. - È un grattacielo, no? - Come se avesse pasteggiato fino allora a grattacieli.
Serafino la guardò. Era improvvisamente diventata diversa Addolorata: le ciglia aggrottate sopra la fessura degli occhi nerissimi, fissava freddamente Milano, quasi Milano le avesse fatto qualcosa di male - impossibile perché erano arrivati allora - e lei contasse di vendicarsi. Ma forse era un atteggiamento di difesa preventiva, un modo, quel disprezzo, di non volersi lasciar sopraffare da quanto di straordinario presentava la grande città.
Tutto sommato era un modo di averne paura.
Lui no; lui, fermo con tutta la massiccia stazione dietro, fra lo scroscio delle acque cadenti dalle due bocche di leone spalancate ai lati della facciata grigia, guardava soltanto, ammirando dove c'era da ammirare, stupendosi dove c'era da stupirsi, deludendosi dove s'era fatto delle illusioni. Senza sapere che questo era un modo di aver coraggio.
Non aveva mai sospettato di averne, lui, di coraggio. Anche ora, per lo spintone con cui Addolorata lo incitò impaziente: - E cammina!
- Si, ma per dove?
- Per via Canonica, no? Che ha scritto il cugino Rosario? S'è letto cento volte il suo biglietto, a casa, in treno, ed ora mi vieni fuori a chieder per dove! Già: te...
- Si, ma noi non sappiamo in quale parte di Milano sia 'sta via Canonica!
Al nord, a Milano, c'era un cugino di terzo grado: Rosario a cui avevano scritto per mettersi sotto la sua protezione, ricevendone un brandello di quaderno, con appena due righe d'indirizzo: «Via Canonica 32 interno».
Adesso erano in un tale intrico di vie e di rotaie che anche Addolorata si dovette arrestare, non senza brontolare: - Che roba, 'sto Milano! E chi passa più di qui?
Volenterosamente Serafino guardò da ogni parte: - Forse lì... - indicò il tragitto più breve disseminato di salvagente, - è meglio...
- Ed ora, - egli rischiò un altro consiglio una volta in salvo sull'altra sponda, - si potrebbe domandare a qualcuno dov'è via Canonica! Magari è da tutt'altra parte, e noi viaggiamo da ieri.
S'avanzavano sul marciapiedi due signore grasse, dipinte, vecchie, vestite da ragazzina. Parlavano animatamente, ma Addolorata sbarrò loro il passo, risoluta, col biglietto di Rosario in mano:
- Debbo andar qui, signò, in 'sta via Canonica. Addò sta?
- Al Sempione, - rispose l'una.
- All'Arena, - rispose l'altra, proseguendo la via e le chiacchiere.
- Te possino... - incominciò Addolorata. Che razza di gente!
Mo' ne so quanto prima. Al Sempione! All'Arena! E che so' di Milano, io? Tu! Addò vai? Serafi!
Lui aveva visto un signore che fumava la pipa appoggiato allo stipite di un portone, in una specie di uniforme bigia coi filetti viola.
- Mi scusi, - gli chiese, - dov'è l'Arena? Dov'è il Sempione?
- L'Arena o il Sempione? - replicò l'uomo, togliendosi la pipa di bocca e guardandolo seriamente.
Serafino si senti come all'esame: - Via Canonica, - rispose.
Ah, - fece l'uomo, con una piccola smorfia, gli parve, levando moderatamente un braccio verso sinistra: - La circonvallazione, il 29, scendi in piazza Gramsci. - Spostò moderatamente il braccio a destra: - O l'1 e scendi all'Arco della Pace. - Subito riprese a fumar la pipa ignorandolo.
Serafino, intuendo in quell'astrazione un congedo, tornò dalla sorella, figura totalmente estranea, forestiera, così bruna, scarmigliata dal viaggio, ed anche per il modo di vestire, al quadro della città. - Ha detto di prendere il 29, - segno a caso a sinistra: chi sa cos'era il 29, - e di scendere a piazza Gramsci; oppure l'1, - segnò vagamente a destra, - e di scendere all'Arco della Pace.
- Salve! - motteggiò lei che pareva al colmo della sopportazione, come se a Milano ci fosse voluto venire lui. - E che sarebbero 'sti numeri? - Là! - s'illuminò Serafino, indicando qualcosa di verde e di lucente che avanzava rapido a cento metri di distanza, sulle rotaie. - C'è scritto 1! è un tram! Corri! - Gratitudine per la giusta indicazione ricevuta, ammirazione per il bell'aspetto di quel tram, fierezza per il suo primo orientarsi nella città sconosciuta gli invasero il cuore pronto a goder di tutto, com'era pronto a soffrir di tutto: il suo cuore, cioè, sensibile.
Ediz. Bromofoto - viaggiata 1960 circa |
- E che corri e corri! Chi sa dove si ferma, quello!
Ma si fermava proprio lì di fronte e Serafino con grandi cenni, correndo con la valigia in mano, chiedeva che l'aspettassero, che aspettassero Addolorata. - Ma corri! - si voltò a ripeterle giunto alla fermata. Quando si girò di nuovo verso il tram, questi, raccolti i predellini, chiusi gli sportelli, era partito.
Li vedi come sono? E m'avevan vista! E tu volevi che corressi! Valeva la pena per dei villani simili?
- Ma se tu correvi... - disse Serafino, - l'avresti preso! Sono andati perché tu non correvi. Io che ho corso ero in tempo a salire.
- Oh, tu corri sempre appresso a tutti... Tu!
Non gli pareva proprio che ci fosse nulla di male nel correre verso tutti e anche verso un tram per non farlo aspettar troppo. Ma si avanzava un altro tram numero 1 e la novità di dover salire su un predellino che sporgeva da solo fra porte che si aprivano e si chiudevano da sole era troppo eccitante ed anche un tantino rischiosa, per pensare ad altro. Infatti, come un cane bracco alla punta, si mise con tutti i sensi tesi ad attendere il tram al varco, spostandosi verso il luogo dove presumibilmente, mentre rallentava la velocità, si sarebbe fermato.
Brillò d'interno orgoglio avendolo indovinato al millimetro, e alla specie di sospiro con cui la vettura s'aperse, rispose, issandosi, con un respiro fiero, voltandosi quindi a porgere la mano alla sorella.
Il tram si rimise in moto. Tutto era andato bene. Era il suo primo inserimento nella meccanica di Milano. Fatto ardito, chiese, mentre Addolorata pagava i biglietti, tre, la valigia pagava come se fosse una persona, attento a non cadere alle scosse delle fermate e delle svolte, mentre edifici via via sempre pili imponenti gli crescevano e gli sparivano ai lati: - Quando siamo all'Arco della Pace, ce lo dice, per favore?
Blandamente, col solo cenno del capo, tanto che a non starci molto attento uno non se ne sarebbe accorto, il tramviere consenti.
Siccome senza dubbio gli avrebbe indicato la fine del suo viaggio con un segno altrettanto impercettibile, per tutto il lungo tragitto Serafino non perse mai di vista il viso d'uomo dai corti baffetti neri sopra la bocca imbronciata, fra la visiera del berretto e il giro dell'alto colletto color ferro, badando a tenere una gamba premuta contro la valigia. Addolorata, attaccata a una maniglia, assente, indifferente, si lasciava trascinare dondolando come un'erba sotto l'acqua.
Ediz. GM |
Venne, dopo più di venti minuti, il cenno atteso e, all'inizio di un grande viale alberato che pareva senza fine, Serafino vide l'Arco sullo sfondo di una nuvola verde, centrante una lontana torre rossa, e sopra vi scalpitavano eroici cavalli immobili trattenuti da impetuose figure di gloria.
- Guarda com'è bello, Addolorà.
Il numero 32 di via Canonica, scritto in grande, col gesso, su uno dei battenti del portone, si chiamava interno perché l'esterno non c'era più. Le bombe l'avevano distrutto: solo il portone aveva resistito, un portoncino dall'arco schiacciato, per cui s'infilava un lungo androne dal soffitto a travicelli, puntellato da pilastri di mattoni perché non crollasse in testa a chi entrava.
[...]
O che ci ha combinate Rosario? - chiese Serafino quando si trovarono sul marciapiedi, tra i passanti frettolosi, indifferenti, e, così a vederli, tutti allegri, senza preoccupazioni nel sole della primavera. A lui pareva che pazzo fosse Rosario, molto più dei milanesi. - E 'sta valigia... - osò lamentarsi. Ormai la portava da più di un'ora, salvo il tempo beato in cui l'aveva portata il tram. Beato perché credeva di andare a un indirizzo sicuro, dove incominciasse il riposo e dopo il riposo l'avventura di una vita nuova.
- Via Villapizzone! - sbottò a un tratto, battendo con forza il pugno destro sul palmo sinistro, facendo sobbalzare un signore grasso che le passava accanto leggendo il giornale e trascinando al guinzaglio un cane più grasso di lui, che si mise ad abbaiare con un verso continuo iroso e fesso.
- Eh, ha voglia! - le rispose una donna che usciva carica della borsa della spesa da un negozio di salumiere, al posto del signore che sembrava solo occupato a calmare e a trascinare via il suo cane, senza nessuna intenzione di rispondere. - Ci va il 12. È il capolinea.
- E dove sta 'sto 12? - chiese Addolorata risentita, ormai irata contro la sorte.
- Qua dietro, in via Bramante.
- Qua dietro in via Bramante! - le rifece quasi il verso Addolorata, senza accorgersi che lo faceva proprio alla prima persona che, spontaneamente, le veniva in aiuto. - Che ne so io! Mica so' de Milano!
- Via Bramante è lì, - accennò a sinistra, - e il 12 va a Villapizzone. - Era tutto quel che poteva dire a uno che voleva andare a Villapizzone.
Milanesi, - le mormorò dietro Addolorata, fra i denti. Un tale in tuta le rispose di rimando, severo, mentre passava: - E allora perché venite tutti quassù, dai milanesi? - Annamo! Annamo! - pregò Serafino, inquieto, avviandosi senz'altro a sinistra secondo l'indicazione di quella donna, dove passava il 12 che andava a Villapizzone. Avevano offeso un abitante della città in cui erano venuti dal paese a cercar fortuna, ed egli aveva giustamente reagito. Meglio togliersi di lì! Che bella, aperta faccia, se pur in quel momento severa, aveva quel lavoratore che camminava cosi sicuro di sé, portando la tuta come un'uniforme, e fermandosi a difendere la sua città come se fosse sua madre.
Ed ecco: - Via Bramante! - annunciò fiero, leggendone la targa. - le rotaie del tram, saran quelle del 12, - preconizzò alla sorella. D'ora innanzi le avrebbe detto solo queste indiscutibili cose. Infatti lei gli si fermò accanto senza discutere, docile proprio come deve essere una donna nei confronti di un uomo.
Fu tanta la gioia che lo invase per quell'atavica armonia che, cercatale d'impeto una delle mani brune abbandonate lungo la veste a fiori, vi mise sopra di slancio una carezza, di cui si spaventò subito come di un rinnovato segno della sua inguaribile debolezza fatta di slanci, di affettuosità che tutti gli rimproveravano.
Ritrasse le dita come se si fosse scottato, irrigidendosi in sé per far dimenticare il gesto tenero. Quando, incredibilmente, inaspettatamente, senti la mano della sorella cercar la sua, le sue dita strisciarvi teneramente sul dorso.
- Mo' ecco il tram nostro, intanto! Monta su! - la guide e le comandò. - Ce sta scritto 12 e Villapizzone. Che vuoi di più chiaro?
- Sì, Serafì! - Lei sali. Lui le andò dietro pensando che da quel momento il mondo era suo, di far cose eroiche per la sorella.
Il tram si rimise in moto. Addolorata fece per pagare il biglietto per sé, per Serafino e, ammaestrata dall'esperienza, per la valigia.
Il suo grido arrestò con uno scossone e stridio acuto di freni, il tram, mentre il bigliettario sobbalzava sul seggiolino, e tutte le facce si voltavano verso di loro.
Lei aveva semplicemente guardato sul pavimento, e vi guardava ancora:
- Serafì! La valigia!
Sobbalzò ora Serafino arrangolando mezzo strozzato: - L'ho lasciata giù sul marciapiedi!
- L'avran rubata! Aprite! Aprite! Aprite! - Addolorata si slanciò allo sportello spingendolo invano con le mani, tempestandolo di pugni, mentre Serafino la coadiuvava frenetico.
Fra esclamazioni che parevano imprecanti talune, divertite le altre, lo sportello si spalancò d'improvviso catapultando a terra i due che vi premevano contro e subito corsero verso la valigia bruttissima e splendide, goffa e meravigliosa, meschina e sublime solo perché era la loro, tutto quello che possedevano a Milano.
Correvano a mani tese, quasi timorosi di non poterla mai più toccare, di vedersela sfuggire. Quando insieme l'abbrancarono, dopo un consono respiro di sollievo, Addolorata somministrò due schiaffi a Serafino fulminandolo con quattro parole che distrussero tutta la sublimazione a cui era miracolosamente appena assurto: - Sei sempre il solito!
Villapizzone pareva uguale al resto di Milano quando scesero al capolinea: case moderne a vivi colori, nuove in una piazza nuova; ma di là da esse, come di là dal sipario di un teatro, c'era, invece, un vecchio villaggio con la sua chiesa, una gran villa di signori nascosta in un folto parco cintato e chiuso da un solenne cancello, una locanda con un curioso nome: «Trattoria del Brambillone», aperta bonaria per un vasto portone paesano da cui si vedeva la pergola del cortile, i tavoli e le panche di pietra alla sua ombra.
Serafino si guardò eloquentemente intorno in quell'estremo angolo di Milano in cui erano venuti a sbattere, un posto che pareva e non era già più città: più in là si vedeva la campagna dove però s'innalzava, invece degli alberi, un intrico di fili, di torri metalliche, nei prati posavano enormi cose circolari dipinte in bianco e rosso con scritto sopra: «Purfina» e, dietro la chiesa, un marmittone a bordi alti, grande come una piazza, color ruggine. Due treni correvano in opposte direzioni facendo fremere le foglie delle siepi ai lati delle rotaie.
Un paesaggio straordinariamente incerto: ostinatamente patriarcale, prepotentemente moderno, che non infondeva nessuna fiducia di trovarvi chi si cercava: tutto pareva sul punto di sparire, come quelle case antiche, o di non essersi ancora sistemato come quelle torrette metalliche, quei fili, quei recipienti strani bianchi e rossi o color ruggine in mezzo ai prati, fra treni lanciati in corsa, da cui nessuno scendeva e nessuno saliva.
[...]