Dalla Guida d'Italia del Touring Club Italiano, edizione 1954.
Redatto a febbraio 2009
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Oltre ai territori accennati non appartengono più al Ducato di Milano i distretti di Bellinzona, Locarno, Lugano tenuti dagli Svizzeri e la Valtellina, che dal 1512 al 1797 resterà egualmente nell'orbita svizzera (leghe grigionesi). L'Óglio segna il confine con la Repubblica di Venezia; il Po quello col Ducato di Parma. Via via il Piemonte assorbirà le zone dalla Sésia al Ticino.
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Abdicando in favore del figlio Filippo II e del fratello Ferdinando (1556) Carlo V lasciava la Lombardia al primo, con la corona di Spagna. I re di Spagna tennero a Milano un governatore conservando un Senato locale. Si erano decretate notevoli partecipazioni «milanesi» (assai più che lombarde) al governo; ma il sistema degenerò presto in un'esosa e inetta oppressione. Molte fra le attività economiche della Lombardia vennero taglieggiate o mal sostenute, così da non poter reggere il passo di un'Europa che si rinnovava. Le «grida» governative tentarono invano di fìngere un'energia contro gli infiniti abusi particolaristici. È il quadro delineato dai «Promessi Sposi» con qualche uniformità di tinta, ma con sostanziale giustezza; in confronto, Bergamo, Brescia, Crema mantennero sotto Venezia un quieto benessere. La parte «spagnola» risentì anche strettamente i limiti morali e culturali della Controriforma, nonostante i meriti grandissimi di un S. Carlo Borromeo o di un cardinal Federico.
Nel 1623 gli Asburgo di Spagna vollero congiungersi a quelli d'Austria occupando la Valtellina, dove la maggioranza cattolica si ribellava ai Grigioni protestanti. Dopo tre anni di guerra e terribili stragi i valtellinesi si confermarono cattolici tornando però ai Grigioni. Subito dopo scoppiava la guerra per la successione di Mantova. La Francia sosteneva l'eredità dei Gonzaga-Nevers, contro la Spagna e l'Impero e i Savoia. Mantova andò al candidato francese; i lanzichenecchi passando per le terre lombarde avevano intanto prodotto i mali che sappiamo, ancora attraverso il Manzoni.
Già piú d'una volta c'è occorso di far menzione della guerra che allora bolliva, per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga, secondo di quel nome. [...] Abbiam detto che, alla morte di quel duca, il primo chiamato in linea di successione, Carlo Gonzaga, capo d'un ramo cadetto trapiantato in Francia, dove possedeva i ducati di Nevers e di Rhetel, era entrato al possesso di Mantova; e ora aggiungiamo, del Monferrato: che la fretta appunto ce l'aveva fatto lasciar nella penna. La corte di Madrid, che voleva a ogni patto (abbiam detto anche questo) escludere da que' due feudi il nuovo principe, e per escluderlo aveva bisogno d'una ragione (perché le guerre fatte senza una ragione sarebbero ingiuste), s'era dichiarata sostenitrice di quella che pretendevano avere, su Mantova un altro Gonzaga, Ferrante, principe di Guastalla; sul Monferrato Carlo Emanuele I, duca di Savoia, e Margherita Gonzaga, duchessa vedova di Lorena. Don Gonzalo, ch'era della casa del gran capitano, e ne portava il nome, e che aveva già fatto la guerra in Fiandra, voglioso oltremodo di condurne una in Italia, era forse quello che faceva piú fuoco, perché questa si dichiarasse; e intanto, interpretando l'intenzioni e precorrendo gli ordini della corte suddetta, aveva concluso col duca di Savoia un trattato d'invasione e di divisione del Monferrato; e n'aveva poi ottenuta facilmente la ratificazione dal conte duca, facendogli creder molto agevole l'acquisto di Casale, ch'era il punto piú difeso della parte pattuita al re di Spagna.[...] Cosí i due alleati alle offese poterono, tanto piú sicuramente, cominciar l'impresa concertata. Il duca di Savoia era entrato, dalla sua parte, nel Monferrato; don Gonzalo aveva messo, con gran voglia, l'assedio a Casale; ma non ci trovava tutta quella soddisfazione che s'era immaginato: che non credeste che nella guerra sia tutto rose. La corte non l'aiutava a seconda de' suoi desidèri, anzi gli lasciava mancare i mezzi piú necessari; l'alleato l'aiutava troppo: voglio dire che, dopo aver presa la sua porzione, andava spilluzzicando quella assegnata al re di Spagna. Don Gonzalo se ne rodeva quanto mai si possa dire; ma temendo, se faceva appena un po' di rumore, che quel Carlo Emanuele, cosí attivo ne' maneggi e mobile ne' trattati, come prode nell'armi, si voltasse alla Francia, doveva chiudere un occhio, mandarla giú, e stare zitto. L'assedio poi andava male, in lungo, ogni tanto all'indietro, e per il contegno saldo, vigilante, risoluto degli assediati, e per aver lui poca gente, e, al dire di qualche storico, per i molti spropositi che faceva. Su questo noi lasciamo la verità a suo luogo, disposti anche, quando la cosa fosse realmente cosí, a trovarla bellissima, se fu cagione che in quell'impresa sia restato morto, smozzicato, storpiato qualche uomo di meno, e, ceteris paribus, anche soltanto un po' meno danneggiati i tegoli di Casale. In questi frangenti ricevette la nuova della sedizione di Milano, e ci accorse in persona. A. Manzoni, I promessi sposi [Capitolo XXVII] |
Mentre quell'esercito se n'andava da una parte, quello di Ferdinando s'avvicinava dall'altra; aveva invaso il paese de' Grigioni e la Valtellina; si disponeva a calar nel milanese. Oltre tutti i danni che si potevan temere da un tal passaggio, eran venuti espressi avvisi al tribunale della sanità, che in quell'esercito covasse la peste, della quale allora nelle truppe alemanne c'era sempre qualche sprazzo, come dice il Varchi, parlando di quella che, un secolo avanti, avevan portata in Firenze. Alessandro Tadino, uno de' conservatori della sanità (eran sei, oltre il presidente: quattro magistrati e due medici), fu incaricato dal tribunale, come racconta lui stesso, in quel suo ragguaglio già citato (Pag. 16), di rappresentare al governatore lo spaventoso pericolo che sovrastava al paese, se quella gente ci passava, per andare all'assedio di Mantova, come s'era sparsa la voce. Da tutti i portamenti di don Gonzalo, pare che avesse una gran smania d'acquistarsi un posto nella storia, la quale infatti non poté non occuparsi di lui; ma (come spesso le accade) non conobbe, o non si curò di registrare l'atto di lui piú degno di memoria, la risposta che diede al Tadino in quella circostanza. Rispose che non sapeva cosa farci; che i motivi d'interesse e di riputazione, per i quali s'era mosso quell'esercito, pesavan piú che il pericolo rappresentato; che con tutto ciò si cercasse di riparare alla meglio, e si sperasse nella Provvidenza. [...] Eran vent'otto mila fanti, e sette mila cavalli; e, scendendo dalla Valtellina per portarsi nel mantovano, dovevan seguire tutto il corso che fa l'Adda per due rami di lago, e poi di nuovo come fiume fino al suo sbocco in Po, e dopo avevano un buon tratto di questo da costeggiare: in tutto otto giornate nel ducato di Milano. [...] Finalmente se n'andavano; erano andati; si sentiva da lontano morire il suono de' tamburi o delle trombe; succedevano alcune ore d'una quiete spaventata; e poi un nuovo maledetto batter di cassa, un nuovo maledetto suon di trombe, annunziava un'altra squadra. Questi, non trovando piú da far preda, con tanto piú furore facevano sperpero del resto, bruciavan le botti votate da quelli, gli usci delle stanze dove non c'era piú nulla, davan fuoco anche alle case; e con tanta piú rabbia, s'intende, maltrattavan le persone; e cosí di peggio in peggio, per venti giorni: ché in tante squadre era diviso l'esercito. Colico fu la prima terra del ducato, che invasero que' demòni; si gettarono poi sopra Bellano; di là entrarono e si sparsero nella Valsassina, da dove sboccarono nel territorio di Lecco. [Capitolo XXVIII] |
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Gli Asburgo d'Austria ottengono l'intera Lombardia alla fine della guerra di successione spagnola. È solo una tregua nel periodo d'inquietudine che dura fino al '748. I Savoia aspirano, da tempo, ad occupare la regione, e Carlo Emanuele III tiene Milano per qualche anno (dopo la battaglia di Guastalla nella guerra di successione polacca). Tornati gli Asburgo si ha poi la guerra di successione austriaca; ad Aquisgrana viene riconosciuta la sovranità di Maria Teresa anche per la Lombardia e cessano, finalmente, per alcuni decenni i conflitti militari in Italia. Qualche segno di miglioramento civile, che si era già intraveduto dal principio del secolo, adesso si accentua. L'Europa è nell'età delle «riforme» e non ne mancano gli effetti in Lombardia. Vari abusi scompaiono; le campagne progrediscono (la Bassa in modo mirabile) e nelle città si moltiplica l'impulso borghese. Scrittori come Parini, Beccaria e i Verri, scienziati come Spallanzani e Volta, illustrano questi anni. Con la riforma amministrativa lascia tracce importanti anche il discusso Giuseppe II. Viene poi da Vienna una ventata di reazione, ma ormai i Lombardi trovano in se stessi il proprio equilibrio - di là da qualche breve sconvolgimento - per ciò che concerne le basi della vita civile.
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Nel '96, battuti gli Austriaci a Lodi, Napoleone entra in Milano e assedia la fortezza di Mantova. Nasce nel '97 la Repubblica Cisalpina con bandiera tricolore, diventa nel 1802 Repubblica Italiana (Bonaparte è presidente e Francesco Melzi vicepresidente). Napoleone, tre anni dopo, cinge la corona ferrea a Milano; Eugenio Beauharnais è fatto viceré. Anni densi d'avvenimenti come non mai.
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Oltre alle due invasioni francesi con l'intermezzo di un'occupazione austro-russa, i lombardi assistono e partecipano al trasformarsi violento dell'intera Europa. Nel '96 le truppe francesi alzavano sulle piazze gli «alberi della libertà». Napoleone parla o fa parlare d'indipendenza italiana, chiama soprattutto i giovani alla vita politica o li porta a combattere al suo seguito, mentre i suoi funzionari intrecciano ottime iniziative ad esose fiscalità. Quando crolla Napoleone i fautori dell'indipendenza si alleano agli austriacanti, contro il partito «francese» (tumulti a Milano nell'aprile '14, uccisione del Prina); crisi economica e carestie assorbono per qualche anno l'interesse del pubblico. Ma si diffonde nei più vivi il ricordo del Codice Civile, uno slancio liberale, l'aspirazione a un'Italia moderna.
Berchet pubblica nel '16 la «Lettera semiseria» che inizia le battaglie romantiche. Presto esce il Conciliatore, primo di una serie memorabile di periodici: dal Politecnico di Cattaneo alla Rivista Europea. Numerosi i gruppi carbonari; Federico Confalonieri suscita e dirige i principali movimenti di libertà. (Nel '20 sono arrestati Pellico e Maroncelli, nel '21 lo stesso Confalonieri con l'Andryane, ecc.). E Manzoni confida ai versi di Marzo 1821 il sentimento patriottico. Fin verso il '40-45 le idee liberali si affermano, però, solo in cerchi ristretti, non senza tentativi di accordo con l'Austria. In Lombardia il loro accento cade sull'emancipazione intellettuale e tecnica. Poi Mazzini moltiplica i suoi proseliti. I gesti di Pio IX infiammano sempre più l'opinione pubblica. Con le Cinque Giornate, Milano nel marzo '48 scaccia l'esercito di Radetzki; nell'eco di quella battaglia avvengono sommosse vittoriose anche in altre città lombarde.
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Le aspre contese intorno alla fusione col Piemonte sono superate dalle sconfìtte di Carlo Alberto a Custoza (1848) e a Novara ('49). Dal 23 marzo all'aprile di quest'ultimo anno, intanto, Brescia corona con le Dieci Giornate le sue secolari prove di coraggio. Difendendo Roma con Garibaldi, si distinguono i lombardi di Luciano Manara, che vi lascia la vita. Molte vittime vedrà anche il «decennio di preparazione»: dai Martiri di Belfiore allo Sciesa, ai caduti nella rivolta milanese del '53. Ma al sentimento dell'unità italiana nessuna forza può ormai fare ostacolo. Il '59 segna per la Lombardia la liberazione definitiva, dopo la vittoria franco-piemontese a Magenta e la campagna garibaldina a nord.
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Nel Regno d'Italia (proclamato dal Parlamento il 14 marzo 1861) la Lombardia costituì dall'inizio una fra le regioni più progredite ed attive; ebbe o raggiunse in breve il primato nelle industrie, nelle operazioni finanziarie, nei commerci. Gli anni 1830-60 erano stati particolarmente fecondi per le imprese tessili e meccaniche. La tradizionale industria della seta trovò un nuovo impulso nell'applicazione su larga scala del vapore. Superando qualche periodo di crisi - anche gravissima - l'economia regionale continuò ad ascendere, verso gli sviluppi grandiosi del primo '900.
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Il tunnel del Gottardo (1882) con i suoi effetti vicini e lontani, il canale Villoresi (1886) furono le novità più rilevanti per i traffici e l'agricoltura. Milano ebbe uno straordinario aumento di popolazione, un riassetto urbanistico che rapidamente la trasformò; meritava il titolo di capitale morale, per il lavoro e tutta una positiva ampiezza di vedute. (Bisogna almeno ricordare per inciso la sua importanza artistico-letteraria fra Ottocento e Novecento, i suoi teatri, l'operosità della vita pubblica nei campi più vari, grazie ad un'armonia fra realismo e idealismo, che è carattere profondamente lombardo). Altre città, da Brescia a Como e a centri minori come Lecco o Monza, bruciarono le tappe dello sviluppo industriale; e tutta la Bassa Lombardia dava gradatamente un respiro d'eccezione alle proprie risorse agricole e zootecniche.
Da Archeologia industriale, TCI, 1983 |
Aspra fu soprattutto la crisi del '98, segnata da conflitti sanguinosi, da una lunga ripercussione politico-sociale. L'assassinio di re Umberto a Monza nel luglio 1900, trovò ancora vibranti gli echi di quelle vicende e l'ansia dei problemi che le avevano generate. Ma il periodo successivo fu tra i più felici, sotto la spinta delle nuove forze economiche. Fu allora che la Lombardia entrò nella sua piena maturità capitalistica, mentre le lotte operaie sempre più estese si inquadravano in un ordine sindacale che ebbe l'apporto di visioni generose e concrete. Anche sotto l'aspetto «regionale», intanto, l'Esposizione del 1906 a Milano era mirabile testimonianza di lavoro. Fino al '14-'15 si manifestò un costante aumento di benessere e la lotta politica non travolse mai gli equilibri fondamentali, le vigorose promesse dell'epoca, cui rispondeva con naturalezza l'attivo ottimismo lombardo.
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Tali prospettive subirono poi colpi violenti, ma anche negli anni più difficili o più tristi la Lombardia seppe riaffermare la vitalità delle doti che la distinguono. Mille prove ne ha dato: dall'intervento in guerra contro l'impero austro-ungarico nel 1915, alla solidarietà con i profughi del Veneto invaso, ai tremendi sacrifici e martiri dell'ultimo conflitto, particolarmente dopo l'8 settembre 1943, durante l'occupazione tedesca che, pur lasciando figurare le autorità italiane locali, esercitò il controllo di tutta l'attività economica ed amministrativa. In questo periodo vive rimasero le forze della resistenza clandestina, che rivelò la sua efficacia nel sabotaggio sistematico della produzione, specialmente bellica, negli scioperi politici del 1944-1945, nell'opposizione al prelievo di mano d'opera specializzata per l'invio in Germania, e nella costituzione di formazioni partigiane che operarono azioni di disturbo e assunsero il controllo delle città, salvandone gli impianti industriali, nelle giornate insurrezionali dell'aprile.