Scritto a marzo 2022
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Se chiedete a un pendolare ferroviario che cosa desidera per i suoi viaggi quotidiani, non avrà dubbi: in primo luogo arrivare puntuale, e come seconda cosa avere un posto a sedere. Se invece gli chiedete a che cosa serve un investimento infrastrutturale, quasi certamente vi sentirete rispondere "andare più veloce". Metterci meno tempo è il legittimo desiderio di chi viaggia in treno. Ma le ferrovie, a parte l'Alta Velocità, sono realmente orientate ad andare più veloci? Lo percepiscono come un doveroso obiettivo da perseguire?
E' di questo aspetto che vogliamo occuparci, e diciamo subito che l'impressione è purtroppo negativa: non solo la riduzione dei tempi di viaggio non viene percepita come un obiettivo prioritario, ma esiste addirittura una miriade di situazioni tecniche concrete, ingarbugliamenti normativi, pressioni economiche, posizioni a favore della sicurezza, invero più teorica che reale, e finanche consuetudini mai aggiornate, che addirittura concorrono tutte ad andare piano, sempre più piano.
Conviene davvero alla ferrovia andare più veloce, guardando al portafoglio? Le concessioni tradizionali, così come i primi contratti di servizio tra le Regioni e Trenitalia (2001) prevedevano un sussidio, o "corrispettivo", proporzionale ai kilometri percorsi: una grandezza oggettiva, stabile e facile da misurare. A partire dal 2008, Trenitalia ha imposto a tutte le Regioni di pagare il corrispettivo proporzionalmente al tempo di viaggio. C'era un fondo di verità, perché svariati costi - in primo luogo il costo del personale - sono effettivamente proporzionali più al tempo che alla distanza. Ma è chiaro che prevedere un sussidio che sia tout court legato al tempo toglie all'azienda qualsiasi interesse ad andare più veloce. Anzi, se il gestore dell'infrastruttura - che è deputato a stabilire gli orari - definiva una traccia più lenta, l'impresa ferroviaria ne aveva un immediato ritorno economico: una situazione invero piuttosto paradossale. Oggi i contratti di servizio non sono più esclusivamente proporzionali al tempo, ma hanno una definizione più articolata del sussidio (attraverso il PEF, il Piano Economico Finanziario); rimane tuttavia vero che se i costi aumentano, alla fine a pagarli è sempre la Regione.
Inoltre la puntualità delle corse condiziona svariati indicatori di performance, dalle penali del contratto di servizio agli obiettivi aziendali. Naturalmente non è vero che allungare i tempi porti in modo deterministico ad avere treni più puntuali (altrimenti avremmo risolto quasi tutti i problemi della ferrovia!), ma è chiaro che un treno che impiega più tempo aumenta la probabilità di arrivare in orario. Così, tanto l'impresa ferroviaria, quanto il gestore dell'infrastruttura non hanno alcun interesse a scegliere dei tempi di viaggio sfidanti, con buona pace delle Regioni che pagano il servizio, e anche dei viaggiatori.
La ferrovia è nata per correre; è cioè sempre riuscita a raggiungere velocità via via più elevate, in condizioni di sicurezza incomparabilmente superiori a quelle di qualunque veicolo stradale. I 100 km/h sono stati un limite standard a cavallo tra '800 e '900, quando ci si può ben immaginare quali fossero le velocità tipiche sulla rete stradale. Crescendo per scaglioni successivi, nella seconda metà del '900 i 160 km/h sono diventati un limite largamente diffuso, esteso anche al trasporto regionale a partire dagli anni '80, grazie alle carrozze per Medie Distanze e le locomotive E.632.
Oggi questo rimane vero, e praticamente tutti i treni sono progettati per almeno 160 km/h. Eppure, su svariate linee permangono limiti di velocità nettamente inferiori, anche quando le condizioni di tracciato non sembrerebbero porre limitazioni. Il rettifilo di pianura della Savigliano-Saluzzo a 80 km/h o la Santhià-Novara a 90 ne paiono buoni esempi, per non dire del limite tradizionale ad appena 60 km/h che era tipico delle ferrovie in concessione e che permane ancora oggi sulla Torino-Caselle-Lanzo, fino ad arrivare ai 40 km/h della tratta francese della Cuneo-Ventimiglia, invischiata in un rimpallo di competenze su chi debba farne la manutenzione.
Ma i problemi spesso non sono legati solo alla velocità massima in linea. In ferrovia gli scambi, cioè le diramazioni da una linea all'altra, sono percorribili sul ramo curvo a una velocità sensibilmente minore a quella di linea, di solito a 30 o 60 km/h. Questo provoca un inevitabile perditempo, ad esempio quando due treni si devono incrociare in stazione su una linea a binario unico. Anzi, una delle critiche che si muovevano alla ferrovia fino a 10-15 anni fa riguardava proprio il grandissimo numero di scambi da 30 km/h ancora esistenti sulla rete italiana. Ma difficilmente si sarebbero immaginati gli sviluppi futuri.
Dapprima, intorno al 2005, si è introdotto il Sistema di Controllo Marcia Treno (SCMT), un automatismo in grado di arrestare il treno se il macchinista non rispetta un semaforo rosso. Si trattava di una scelta doverosa, in un campo in cui la rete italiana era rimasta pericolosamente arretrata. Purtroppo l'SCMT è stato implementato privilegiando una sicurezza "assoluta", a scapito della fluidità della circolazione. Ad esempio si sono scelte delle curve di frenatura tali da obbligare il treno a non superare i 30 km/h, quando è ancora piuttosto distante dal semaforo rosso. Così, se in precedenza i 30 km/h erano abituali solo per percorrere uno scambio sul ramo curvo, con l'SCMT la marcia a 30 km/h è diventata la norma in un grandissimo numero di stazioni, tanto che, per cercare di limitare i danni, si utilizza, ove possibile, l'escamotage di far diventare verde il segnale di partenza in anticipo, proprio per permettere al treno di frenare normalmente.
Ci si è però accorti che, nell'ipotesi teorica di un macchinista totalmente irrispettoso dei semafori, superare un segnale rosso a 30 km/h poteva comunque non garantire l'arresto del treno prima dell'impatto con un altro treno, se fosse stata troppo breve la distanza tra il segnale rosso e il punto da proteggere (tipicamente lo scambio alla fine della stazione). Così, progressivamente a partire dal 2016, i 30 km/h sono stati abbassati ad appena 10, quando questa distanza è inferiore a 150 m.
150 metri sono veramente tanti. In molte stazioni secondarie, servite da treni lunghi circa 100 m (4 carrozze), immaginare di avere, oltre alla lunghezza del treno, altri 150 m per parte è puramente utopico. Ma anche un gran numero di stazioni di medio livello non rispetta affatto queste distanze. Così la velocità di 10 km/h è dilagata su un numero sempre maggiore di impianti, e quindi si incontra sempre più volte durante un viaggio.
Che cosa succede allora? La prima cosa che balza all'occhio del viaggiatore è che il treno entra in stazione lentissimamente - cioè appunto ad appena 10 km/h - con un effetto del tutto innaturale rispetto alla percezione comune. In alternativa, se il treno si ferma un po' indietro rispetto al segnale, è la partenza ad essere lentissima, perché l'SCMT ha un'altra caratteristica negativa: è un sistema puntiforme, cioè basato sul passaggio in determinati punti (le boe), gli unici in cui il treno può conoscere l'aspetto dei segnali (rosso o verde). Quindi finché la cabina di guida non ha superato il segnale - nel frattempo diventato verde - il sistema non sa che il segnale è verde, e quindi obbliga a mantenere i 10 km/h.
E' evidente che entrare in stazione a passo d'uomo erode i normali margini destinati ad assorbire i ritardi, invoglia le imprese ferroviarie a chiedere un allungamento dei tempi di viaggio - il che sottrae capacità alla linea, perché più i treni vanno piano, meno ce ne stanno - e sicuramente sta agli antipodi delle aspettative dei viaggiatori.
Non si pensi tuttavia di essere di fronte a una congiuntura accidentale, che si verifichi solo in certi casi specifici, vittime di situazioni sfortunate: un'analisi più ampia mostra proprio una realtà sistematica, in cui nessuna figura pubblica - a partire dallo Stato, attraverso la sua emanazione dell'Agenzia per la sicurezza - sembra avere a cuore l'interesse dell'utenza in termini di performance, ma solo la difesa del proprio specifico campo, inclusa una sicurezza ipoteticamente assoluta, realisticamente eccessiva.
Quale poteva essere un approccio più sensato? Purtroppo potevano essere tanti. Da un lato i 150 m sono un'approssimazione per eccesso, buona per tutti i treni, ovvero nelle condizioni di frenatura meno performanti. Un moderno treno regionale potrebbe fermarsi in 75 m, ma nessuno ha seguito la strada, un po' più complessa e audace, di differenziare la distanza in funzione del tipo di treno.
Ma è proprio il modo di (non) affrontare il problema che ci pare errato: fino a ieri questa soggezione non c'era, e peraltro non ci risultano incidenti gravi (a differenza del superamento di un segnale rosso in linea, che è sempre stato la causa di incidenti gravissimi, e per il quale - ribadiamo - l'SCMT è stato una scelta doverosa, applicata già molto in ritardo). Nel momento in cui si sceglie, anche giustamente, un approccio di maggior sicurezza, sarebbe legittimo aspettarsi che, contestualmente, si investa a livello di infrastruttura per limitarne gli impatti, ad esempio modificando le stazioni per introdurre un "tronchino di indipendenza", cioè un breve binario morto dopo il semaforo, che permette di scendere sotto i 150 m mantenendo i 30 km/h. Ma visto che nulla di tutto questo è stato fatto, imponendo solo nuovo vincolo, si ha l'impressione d'essere di fronte a una ferrovia autoreferenziale, che non ritiene di dover rendere conto delle proprie prestazioni ai propri utenti e a tutti i cittadini che la finanziano. Può sembrare una battuta, ma pare che per chi fa queste scelte un treno perfettamente fermo sia la condizione a cui tendere: sicura, poco impegnativa e di grande fascino.
Infine c'è un dubbio sul reale utilizzo della tecnologia: nella larga maggioranza dei casi, quando il treno entra in stazione a 10 km/h, non c'è nessun treno, dall'altra parte, con cui si potrebbe ipoteticamente scontrare; ma il sistema non lo sa e obbliga comunque alla velocità ridotta. E' davvero così impensabile immaginare che l'innovazione tecnologica possa fornire al treno tutte le informazioni che gli occorrono per poter utilizzare in modo efficiente l'infrastruttura, facendo andare di pari passo gli incrementi di sicurezza con la tecnologia che li supporta?
Nel frattempo i treni continuano a entrare "al rallentatore" in stazioni di ogni tipo, dagli Intercity sulle linee principali, alle automotrici di quelle secondarie, e pure sulle ferrovie regionali che, a loro volta in ritardo, hanno mutuato la stessa tecnologia, spesso passando dai 70 km/h imposti come misura di mitigazione in assenza di SCMT agli 80 km/h con SCMT e tutte le stazioni a 10 km/h. Un risultato in cui la competitività del treno rispetto agli altri mezzi di trasporto sembra esser stato considerato come l'ultimo degli obiettivi, nonostante le dichiarazioni di principio e le ingenti risorse investite.
La ferrovia continua ad assorbire ingenti risorse pubbliche. Spesso abbiamo evidenziato come non bastino gli investimenti, ma siano necessarie risorse "in spesa corrente", cioè anno dopo anno, per far funzionare la ferrovia, per esempio nel trasporto locale, che è sempre sussidiato. Tuttavia si era soliti considerare in modo positivo gli investimenti, come un primo passo verso il miglioramento del servizio. Gli esempi di questo articolo mostrano invece come, da un lato, sia difficile ottenere gli investimenti che servono: per esempio quelli che aumentano la velocità di una semplice linea di pianura; dall'altro lato, come alcuni investimenti provochino proprio un sensibile peggioramento delle performance, di norma in nome di una spasmodica ricerca della sicurezza.
Se ho un sistema già molto sicuro, quale è sempre stata la ferrovia, e faccio di tutto per farlo diventare ipersicuro, ma la conseguenza è che l'utenza lo abbandona e passa ad un sistema molto insicuro - l'auto - non sto affatto aumentando la sicurezza. Sto relegando la ferrovia a una ristretta cerchia di utenti con poche o nulle alternative, il che è un risultato davvero deludente. Se poi questo mi è costato fior di investimenti pubblici, il risultato diventa addirittura drammatico.