di Enrico Menduni
Il Mulino, collana L'identità italiana, 12
1999
Selezione immagini e commenti in blu di Giorgio Stagni. Ringraziamenti e fonti a fine pagina.
For foreigner readers: this article deals with the building of the Autostrada del Sole, from Milan to Bologna, Florence, Rome and Naples, which represented the backbone of the Italian motorway network.
The motorway was started in 1956, when the only motorways existing in Italy were those opened before the Second World War. Actually, the route from Milan to the lakes of Como and Maggiore, opened in 1924, was the first toll motorway in the world, and in the next decade was followed by a small network of about 470 km, from Milan to Turin and Brescia, plus the first route through a mountain pass (Autocamionale Genoa-Serravalle) and few other minor sections.
All motorways built before the war had a single-carriageway structure, about 10.5 m wide, and the same structure was used for the first new route built after the war: the Genova-Savona, opened between 1956 and 1964. On the contrary the engineers that had to design the new Autostrada del Sole took a trip to the United States, in 1956, in order to learn how a modern motorway had to be built. As a result of this trip, the Autostrada del Sole was planned with 4-lane, double-carriageway structure, that became the standard design for all other motorways in Italy (old single-carriageway sections were rebuilt during the Sixties).
The concession for the construction of the Autostrada was granted to a new public company, Società Autostrade, a subsidiary of IRI, the most important State-owned industrial group. The idea of the Italian government was that the State had to build road network (and to have a large share in the petrol market, through Agip, another state-owned company), while private companies, mainly FIAT, had to sell cars.
The idea was successful: in a very short time, three years and two months, the Società Autostrade succeeded in building some 220 km of motorway: 188 km from Milan to Bologna and the Naples-Capua, first section of the Naples-Rome. The full path from Milan to Naples was opened within 1964, including the Appennino section between Bologna and Florence, possibly the most "revolutionary" part of the Autostrada: it didn't simply improve a connection, it just created it, as the previous mountain roads were incomparably slower. For the first time, railway was not considered any more as the "obvious solution" to connect Northern to Southern Italy.
The 1600 km of motorway network opened within 1964 became 4900 in 1975. On August 13, 1975, a law suddenly stopped the construction of new motorways, as a consequence of the oil crisis occurred in 1973. The stop lasted about 7 years, in which only minor sections were built, so that 1975 can be considered as the end point of the Italian motorways' golden age.
(dal capitolo 1 "Dalla ricostruzione al benessere", paragrafo 5 "L'Italia in automobile")
L'idea che fosse possibile per l'uomo medio, non particolarmente sportivo, e perfino per le donne, accedere all'arte della guida si fa strada gradualmente attraverso gli anni Venti e Trenta anche per l'influenza sociale del futurismo, una corrente artistica che aveva esaltato ogni forma di velocità e di progresso meccanico.
Per la gran parte degli italiani spostarsi significava prendere il treno; la mobilità, in altre parole, era sostanzialmente gestita dallo Stato e questo significava un controllo sociale pervasivo. Anche per chi disponesse di una vettura, del resto, il treno era molto più conveniente. Poteva essere piacevole compiere una passeggiata fuori città, o raggiungere qualche località turistica, ma non di più; le stesse corse automobilistiche, come la Targa Florio in Sicilia e ancor più la Mille Miglia che percorreva tutta Italia, portando lo spettacolo sotto le finestre degli italiani, si svolgevano in una nuvola di polvere e fra mille imprevisti, simili più al celebrato raid Pechino-Parigi della coppia Borghese-Barzini nel 1907 che ad un viaggio normale. L'auto era più uno sport - talvolta estremo - che un semplice mezzo di trasporto.
Per le medie e lunghe distanze il treno era imbattibile. Nato con la rivoluzione industriale, giunto in Italia nel 1839 come lussuoso giocattolo dei Borboni di Napoli, il treno era stato il protagonista dell'unificazione nazionale. La rete ferroviaria era stata costruita a tappe forzate e alla fine dell'Ottocento era già compiuta nel suo disegno di insieme [vedi un racconto]. In molte città e province l'arrivo della ferrovia, con i suoi lavori in appalto, le trasformazioni urbanistiche, l'emergere di ceti affaristici, aveva coinciso con l'affermarsi di una qualche modernità. Il treno costituiva ormai una tecnologia matura e affidabile, sulla quale il regime fascista aveva largamente investito per motivi di prestigio, promuovendo in particolare l'elettrificazione delle linee più frequentate, a cui aveva dato anche una coloritura autarchica perché così veniva ridotta la dipendenza dal carbone estero [guarda alcuni esempi di locomotive elettriche].
Al contrario la rete stradale, negli anni Trenta, era asfaltata solo nei tratti principali. La tabella mostra chiaramente come gli anni Venti furono determinanti per la costruzione di una rete stradale, che però era a fondo naturale, quindi in condizioni di manutenzione precarie, per quasi il 70%. Nel decennio precedente alla seconda guerra mondiale la percentuale di strade non asfaltate si ridusse della metà. Ancora nel 1950, era in queste condizioni un quarto della rete.
Anno |
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1910 |
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1921 |
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1930 |
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1940 |
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1950 |
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1955 |
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1960 |
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1965 |
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TAB. 1. Estensione della rete delle strade statali in Italia
Fonte: Istat, Annuario statistico italiano, 1912, 1919-21, 1931, 1941, 1952; Statistica degli incidenti stradali, 1955, 1960, 1964, 1965.
Strade negli anni Trenta |
Noli, via Aurelia Già nella guida d'Italia del 1914, Bertarelli definiva la via Aurelia come "strada del massimo interesse, complessivamente con fondo discreto o buono", ma si trattava più di un'eccezione che della norma, dovuta all'importanza turistica che già allora la Riviera rivestiva: le strade normali erano senz'altro in condizioni ben più modeste. |
La rete delle strade statali si diramava ancora lungo gli assi delle strade romane, entrava in tutti i paesi e villaggi con prevedibili attraversamenti di persone, veicoli e animali e serviva anche alle necessità dell'agricoltura con il transito di mandrie, greggi e di carri colmi di fieno. La velocità media era dunque molto bassa, molto al di sotto delle possibilità teoriche dei motori (che già negli anni Trenta consentivano anche a una piccola vettura di marciare a 80-90 chilometri all'ora), e le condizioni del viaggio faticose [anche in ferrovia la velocità massima nell'esercizio quotidiano - allora tra i 100 e i 120 km/h - era inferiore alle possibilità teoriche, ma si trattava comunque di una velocità apprezzabile e realmente mantenibile su svariate linee della rete].
Passi e valichi punteggiavano le strade, perennemente in salita e in discesa specialmente a sud degli Appennini. Per andare in auto da Milano a Genova attraverso il passo dei Giovi, una vecchia strada settecentesca, si poteva impiegare un'intera giornata; negli anni Trenta un treno a trazione elettrica impiegava due ore e mezza, un tempo paragonabile alla percorrenza attuale. Per raggiungere in auto Napoli da Roma percorrendo la maestosa via Appia, si potevano calcolare sei ore, contro le due e mezza del treno. In altre parole, il trasporto automobilistico era fuori mercato, sia per le merci che per le persone. L'affidabilità meccanica e logistica del treno era ormai notevole, mentre l'automobile era ancora un oggetto delicato, necessario oggetto di abilità e attenzioni particolari, soggetto a panne, guasti, incidenti. Lo chauffeur non serviva soltanto alla guida: un'avaria al motore, un fosso troppo profondo, un pericoloso attraversamento di oche o di galline potevano trasformare il bel giro in macchina in un'avventura estenuante, se non si aveva con sé un meccanico esperto e una piccola riserva di bulloni, lubrificanti, candele, filo di ferro. Contare su officine, gommisti, stazioni di rifornimento troppo disperse per costituire una rete efficiente, rappresentava un eccesso di ottimismo che poteva costare caro.
Gli italiani, del resto, non viaggiavano molto. Ai primi del Novecento le cifre davano 1,83 viaggi ferroviari all'anno per abitante contro i 27,40 del Regno Unito. Una parte significativa dei viaggiatori, peraltro, è costituita dai turisti stranieri e dai pellegrini dell'Anno santo: dopo l'apertura del Canale di Suez (1869) e del traforo del Frejus (1871) la traversata dell'Italia fino a Brindisi entra a far parte della Valigia delle Indie (Londra-Calais-Modane-Piacenza-Brindisi-Suez-Bombay), e infatti la compie Phileas Fogg ne Il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne (1872) [leggi una pagina]. Grazie ai trafori del Gottardo (1882) e del Sempione (1906) il treno si afferma definitivamente nei trasporti a lunga distanza di persone e di merci. Nel 1905 sulle ferrovie italiane transitano 20 milioni di viaggiatori; 139 milioni nel 1929. La direttissima Roma-Napoli (1927) e la nuova Bologna-Firenze (1934) con la «Galleria dell'Appennino» (18,5 chilometri), accorciando sensibilmente le distanze e i tempi di percorrenza ribadiscono la prevalenza assoluta della strada ferrata. I «treni popolari» (con riduzioni anche dell'80% sul costo dei biglietti), l'introduzione di nuove automotrici leggere («Littorine»), le gite organizzate e i viaggi in comitiva dell'Opera nazionale del dopolavoro portarono il numero dei passeggeri a 167 milioni nel 1939. Ma gli italiani viaggiavano ancora poco: tre viaggi all'anno, pari a un tragitto di circa 200 chilometri; in Francia, Inghilterra e Germania un cittadino compiva rispettivamente 20, 29 e 30 viaggi in ferrovia all'anno.
Per le merci, invece, soprattutto nell'Italia settentrionale, negli anni Trenta il trasporto stradale («su gomma») comincia ad essere più competitivo, perché più flessibile.
[...]
Le autostrade, nel senso di strade destinate esclusivamente al traffico automobilistico, erano nate in Italia per iniziativa di un ingegnere milanese, Piero Puricelli, inventore di un sistema di strade speciali, riservate ai veicoli a motore con ruote gommate. Il primo tronco autostradale del mondo è la Milano-Laghi, di 85 chilometri, inaugurato nel 1924.
Nel 1926 fu firmata una convenzione con lo Stato (R.D. 1040 del 27 maggio 1926), che per la costruzione e gestione dell'autostrada tra Milano e i laghi Maggiore, di Como e di Varese, garantiva alla Società Anonima Autostrade un sussidio di un milione e mezzo all'anno per tutta la durata della convenzione, fissata in cinquant'anni dall'apertura, e le riconosceva il diritto a imporre e riscuotere pedaggi. Il traffico previsto era di 2.000 veicoli al giorno, ma si rivelò troppo ottimistico. Il limitato sviluppo della motorizzazione e la crisi economica provocarono il collasso economico della società, a cui nel 1933 subentrò l'Aass, futura Anas. Intanto era sorta a Milano la Società Autostradale, che gestiva il primo servizio di trasporto passeggeri su «autotreni celeri di lusso» tra Milano, Como, Varese e Arona.
Alla Milano-Laghi seguirono la Milano-Bergamo (1927), la Napoli-Pompei e la Via del Mare, senza pedaggio, tra Roma e Ostia (allora classificata autostrada, 1928); la Bergamo-Brescia (1931), la Torino-Milano (1932), la Padova-Mestre-Venezia e la Firenze-Mare (1933), e infine l'autocamionale Genova-Serravalle Scrivia (1935). «Le autostrade - aveva affermato il Duce - sono una grandiosa anticipazione italiana, un segno certissimo della nostra costruttiva potenza, non indegna degli antichi figli di Roma».
Il documento:
Dalla Guida d'Italia del TCI, Lombardia, 1930 (VIII)
LE AUTOSTRADE. - Il 26 marzo 1923 furono iniziati i lavori per la costruzione di una rete di strade, riservate esclusivamente agli autoveicoli con ruota a rivestimento elastico - che allacciano Milano ai Laghi Maggiore e di Como e a Varese. Il progetto (ing. Piero Puricelli) fu discusso al T.C.I., ove si decise la costituzione della Soc. An. Autostrade, alla quale il Governo, con la Convenzione 1 dic. 1922 e con un complesso di provvedimenti e di norme anche giuridiche nuove, concesse la costruzione e l'esercizio (per 50 anni, dopo i quali la rete passerà allo Stato) della rete stessa. Si tratta di un'impresa assolutamente nuova sia dal lato tecnico, sia da quello giuridico, e della massima importanza per lo sviluppo degli autotrasporti e del turismo. Il tronco Milano-Varese fu inaugurato nel sett. 1924, i tronchi Milano-Como e Milano-Vergiate nel 1925; nel sett. 1927 veniva aperta la Milano-Bérgamo. Sono in via d'esecuzione la Bérgamo-Bréscia e la Milano-Torino.
TARIFFE DI PASSAGGIO:
VEICOLI |
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Motocarrozzette ....... L. |
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Vetture e camioncini fino a 17 HP e rimorchi ....... L. |
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Vetture e autocarri da 17 a 26 HP ....... L. |
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Vetture e autocarri oltre 26 HP ....... L. |
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Autobus ....... L. |
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[nello stesso anno e dalla stessa guida, apprendiamo che le 12 lire richieste per un viaggio di andata su una vettura utilitaria erano pari a un biglietto di terza classe da 55 km (12.30 Lire per l'esattezza, a fronte di 20.50 per la seconda e 29.50 per la prima classe). Siccome le distanze in gioco sono grosso modo intorno ai 50 km, si può dire che il pedaggio fosse più o meno pari al costo del biglietto ferroviario.
Le 12 lire di allora corrispondono a circa 9.50 Euro del 2008. Pur nell'approssimazione di questi confronti, a così tanti anni di distanza, il pedaggio è circa dimezzato in termini reali, dato che oggi non supera i 3-4 Euro, anche se nel frattempo sono scomparse le facilitazioni per i pedaggi di andata e ritorno e i "50 tagliandi". Anche 55 km ferroviari, infine, costano oggi circa 4 Euro in seconda classe.]
Poiché le previsioni sul traffico erano poco accurate, anche la Milano-Bergamo passò nel 1938 alla gestione statale; nel 1939 toccò alla Bergamo-Brescia e nel 1941 alla Firenze-Mare. Private rimasero solo la Torino-Milano, la Padova-Mestre e la Napoli-Pompei. Lo Stato (tramite l'Aass) costruì in proprio la Genova-Serravalle e la Roma-Ostia (poi declassata a strada statale) unici tratti di un vasto programma di rete autostradale (6.850 chilornetri) rimasto sulla carta. Nel primo dopoguerra l'Anas costruirà la Genova-Savona (26 chilometri), approvata con una legge del 1951.
Le autostrade del triangolo industriale tra Milano, Torino e Genova avevano un'importanza commerciale, le altre soprattutto finalità turistiche. Avevano due sole corsie ma non c'erano incroci a raso né forti pendenze; si entrava in autostrada soltanto dai caselli, pagando un pedaggio. Ho qualche ricordo di bambino sull'autostrada Firenze-Mare prima del raddoppio. «Siate cauti nei sorpassi», diceva una scritta blu sui ponti che traversavano la carreggiata; grandi cartelli pubblicitari (furono proibiti molto più tardi) tessevano le lodi del porto Sandeman, delle coperte Radici, della Gommapiuma Pirelli. Dopo i lunghi rettilinei tra Firenze, Prato e Pistoia una breve salita, tra vecchie torri medievali, portava al valico di Serravalle, vicino a Montecatini, che si superava in galleria. La macchina saliva con qualche affanno, c'era sempre la paura che «bollisse l'acqua», quella del radiatore, e in quel caso occorreva fermarsi per un po', finché non si fosse raffreddata. I caselli dell'autostrada erano in stile rinascimentale, come le decorazioni a bugnato della galleria; il traffico era scarso. Mi dicevano che durante il conflitto l'autostrada era stata aperta, in mancanza di meglio, alle biciclette: squadre di giovani pedalavano da Firenze per andare a fare un bagno a Forte dei Marmi. All'avvicinarsi della Versilia comparivano sulle colline le fortezze che testimoniavano dell'antica rivalità fra le repubbliche di Pisa e di Lucca. Poi si arrivava alla pineta di Migliarino, l'autostrada era finita, le spiagge di Viareggio erano a due passi.
Nel 1954 quattro protagonisti dell'industria italiana, Eni, Fiat, Pirelli e Italcementi, tutti direttamente interessati allo sviluppo della motorizzazione e delle costruzioni stradali, diedero vita (probabilmente su suggerimento del ministro delle Finanze, Ezio Vanoni) alla Sisi (Sviluppo iniziative stradali italiane spa), una società di studi (oggi si direbbe di engineering, ma anche di lobbying) che predispose un progetto di massima per un'autostrada Milano-Bologna-Firenze-Roma-Napoli e un'ipotesi finanziaria basata sulla riscossione dei pedaggi. Il progetto fu donato allo Stato e il ministro dei Lavori pubblici Giuseppe Romita, socialdemocratico, si impegnò a far approvare dal Parlamento un piano autostradale. Il concetto era semplice: lo Stato garantisce la realizzazione della nuova infrastruttura con una propria società e ha un ruolo importante nella commercializzazione dei carburanti; l'industria privata pensa alla vendita delle automobili.
L'iter parlamentare della legge fu breve, sei mesi appena, in cui le sinistre manifestarono tutta la loro contrarietà; era largamente diffusa l'opinione che fosse preferibile un piano di adeguamento delle strade statali e un potenziamento delle ferrovie [in realtà, vedendo le cose con gli occhi di oggi, erano probabilmente indispensabili entrambe le cose: una rete autostradale che permettesse, come effettivamente permise, un enorme salto di qualità nel trasporto stradale, e un potenziamento delle ferrovie, che riuscisse non solo a modernizzarle, come comunque riuscì, ma anche a non farne drasticamente ridurre la quota modale - vedi altri dettagli]. Il governo riuscì energicamente a far approvare, pur con modifiche, il suo piano, che divenne la legge 21 maggio 1955, n. 463.
L'esile cartografia allegata al testo mostra il progetto di una mappa autostradale dalla forma a T simile a quella della rete dei ripetitori televisivi: una «stampella» orizzontale Torino-Milano-Venezia-Trieste, una diramazione da Milano per Genova, un asse verticale da Milano verso Bologna che poi si biforca, verso Roma-Napoli e verso Ancona-Pescara. Il piano sarebbe diventato esecutivo «nei limiti degli stanziamenti concessi»; e quindi, realisticamente, solo da Torino a Venezia e da Milano a Roma, o forse a Napoli.
La legge aveva come primo obiettivo la costruzione di autostrade da parte dell'Anas, l'Azienda autonoma delle strade statali presieduta dal ministro dei Lavori pubblici, e solo in subordine la concessione a terzi della costruzione e dell'esercizio delle autostrade; ma si trattava soltanto di un riconoscimento formale. Era opinione diffusa che l'Anas non avesse né la capacità finanziaria, né l'efficienza, né la competenza per farlo; del resto il ceto dirigente modernizzatore preferiva collocare le competenze relative all'impiantistica e gestione di grandi arterie stradali nel raggio d'azione delle classe politica, ma più spostate verso l'industria privata. L'area privilegiata risultava quella delle Partecipazioni statali. La costruzione dell'autostrada Milano-Napoli fu affidata infatti all'Iri con una convenzione (14 aprile 1956, approvata con decreto interministeriale in pari data n. 3072) e concessa alla Società Concessioni e Costruzioni Autostrade Spa, di nuova costituzione, con un milione di capitale sociale e di totale proprietà dell'Iri, che al momento della firma della convenzione non aveva né una sede, né un dipendente.
L'uomo che l'Iri scelse come amministratore delegato rappresentava molto bene i rapporti dialettici tra industria privata e capitalismo di stato; si trattava di Fedele Cova, un ingegnere di Borgomanero (Novara) che nel dopoguerra aveva costruito per l'Iri la Cementir, un'azienda pubblica per la produzione del cemento che sfruttava le scorie e l'energia degli stabilimenti siderurgici Finsider, di proprietà dello Stato, e permetteva al settore pubblico delle costruzioni di non essere dipendente dai privati (prima di tutto dall'Italcementi di Pesenti) per le forniture di cemento. Cova, una figura di realizzatore pragmatico, si studiò le carte. Il progetto della Sisi era poco più di una linea tracciata su una mappa e il piano finanziario, anche per i vincoli della legge 463, non stava in piedi; in Italia però l'importante è cominciare, poi adeguamenti di prezzo e modifiche legislative verranno. Cova lo sapeva bene; aveva lavorato per l'Iri e doveva conoscerne le caratteristiche di «braccio esecutivo» dello Stato nei campi in cui le pastoie burocratiche, i vincoli politici (ma anche le esigenze di trasparenza e la Corte dei conti) gli avrebbero impedito di operare direttamente. All'Iri si chiedeva proprio questo: di costruire in fretta le autostrade dribblando le varie difficoltà, agendo di volta in volta come se fosse un imprenditore privato, o invece come un corpo dello Stato che chiamava alla collaborazione le prefetture in nome di un progetto di pubblica utilità adottato dal governo: entrando e uscendo continuamente dalla natura pubblica e dall'ufficialità, passando lestamente a quella privata, come gli amanti in palcoscenico nelle pièces di Feydeau. Questo energico insieme di saperi tecnici e competenze mediatrici doveva svolgere, in pieni anni Cinquanta, quel ruolo risoluto di appoggio alle decisioni che, qualche anno prima, era stato assicurato all'Eni dai partigiani di Mattei.
Il nuovo amministratore si mise subito all'opera. Serviva intanto un nome simbolico per la nuova opera: c'era già il «Treno del Sole» che univa il Sud al Nord: «Autostrada del Sole» poteva andare benissimo.
La situazione nel maggio 1956 vede in attività solo le autostrade prebelliche e il primo tratto della Genova-Savona, che era stato aperto all'inizio di quello stesso mese. The motorway network in May 1956, when the building of Autostrada del Sole started. All existing motorways were built before the war, between 1924 and 1935, except the very first section of Genoa-Savona, that was built since 1951 and opened on that same May 1956. |
Al completamento dell'Autosole, la rete misura ormai 1630 km, quasi tre volte e mezzo la lunghezza che aveva nel 1956. AGGIORNATO! E' disponibile anche una cronologia più completa con ulteriori mappe. The situation in October 1964, when the Autostrada del Sole was finished. In addition to it, two important pre-war motorway were completed: the Milan-Venice and the Milan-Genoa. Also few other sections were added, including the first part of Savona-Torino, which was the last one to be built with a single carriageway. The whole network was 1630 km long, i.e. 3.4 times the length in 1956. |
L'Anas, con cui formalmente era stata stipulata la convenzione e che doveva approvare i piani di costruzione, era in difficoltà nell'esaminare un progetto così diverso da quelli soliti, che appariva avventuroso e faraonico. I funzionari dell'Anas erano specialmente turbati - per motivi a noi oscuri - dall'eliminazione dei paracarri e temevano, chissà perché, un movimento d'opinione che avrebbe richiesto la loro abolizione anche sulle strade normali. L'Anas scongiurò di mantenerli e l'unico sistema fu di dire di sì e poi non farlo; una soluzione che fu adottata molte volte, contando sul sostegno del governo, per aggirare inestricabili grovigli burocratici. Altri problemi sollevò il guardrail, che rappresentava un oggetto misterioso. Le nuove barriere furono applicate all'Autodromo di Monza per il Gran premio automobilistico del 1956, per dimostrare la loro validità. Per fabbricare in Italia i guardrail flex-beam (importarli sarebbe stato politicamente incauto) fu addirittura costituita una società dell'Iri, la Armco-Finsider (Finsider più Armco steel Corp., di Middletown, Ohio), nel 1957, e fu coniato l'effimero neologismo «guardarail».
Quanto alle aree di servizio, la convenzione non ne faceva cenno e sembrava difficile che la concessionaria potesse legalmente costruirle; la soluzione fu quella di predisporre l'area necessaria per la loro realizzazione già in sede di esproprio dei terreni su cui si sarebbe sviluppato il percorso dell'autostrada e di invitare le società petrolifere a partecipare a una sorta di appalto-concorso, che lasciava alla Società Autostrade una larga discrezionalità. Sarebbe stato poi compito dei vincitori la ricerca di un'eventuale intesa con altre società per gestire i ristoranti, i bar e i negozi, versando una percentuale sul venduto alla concessionaria. L'Eni avrebbe volentieri voluto per sé il monopolio delle aree di servizio, che esprimevano una filosofia di servizio globale piuttosto simile all'impronta modernizzante che l'Agip tentava di introdurre, con varie difficoltà, nella sua rete di distributori; la prudenza volle che tutte le imprese petrolifere fossero rappresentate nelle aree di servizio, anche se l'Eni ne ottenne comunque il numero più alto.
Le pressioni del governo ebbero ragione, com'era prevedibile, delle perplessità e titubanze dell'Anas. Nel giugno 1957, quando dunque i lavori erano già abbondantemente iniziati, il consiglio di amministrazione Anas approvò le caratteristiche e gli standard dell'Autostrada del Sole e, implicitamente, di tutte le autostrade future, comprese le superstrade che la stessa Anas avrebbe in seguito costruito [di fatto, fu da questo momento che l'autostrada divenne quella che conosciamo oggi, cioè con due carreggiate separate e almeno quattro corsie. In precedenza tutte le autostrade d'anteguerra, citate sopra, e la tratta già aperta della Genova-Savona erano a carreggiata unica, così come sarebbe stata ancora la Savona-Ceva in costruzione (aperta nel 1960). Tutte le autostrade d'anteguerra vennero raddoppiate nel corso degli anni Sessanta, in genere entro il 1967, eccetto la Genova-Savona, completata nel 1975-77. Nel libro si racconta anche di un viaggio-studio negli Stati Uniti, compiuto nel settembre 1956, nel quale i dirigenti della Società Autostrade non scoprirono solo la struttura a due carreggiate, ma anche la forma degli svincoli "a quadrifoglio", le aree di servizio, le corsie di emergenza e tutti gli altri dettagli che permisero di trasformare quella "linea tracciata su una mappa" in un oggetto realmente costruibile] .
Autostrade negli anni Sessanta |
La Genova-Savona originale. Nei dintorni di Arenzano, l'autostrada mostra la struttura originale a carreggiata unica. The original Genoa-Savona motorway (1956-1964), with two lanes on a single carriageway. |
Una vista simile a quella mostrata nella sezione cartoline. |
A Varazze l'autostrada appare nella versione a tre corsie, con quella centrale sempre destinata al sorpasso, in entrambe le direzioni (dal volume "Genova-Savona andata e ritorno" di Claudio Serra et al.). |
Successivamente, vista la pericolosità delle tre corsie a sorpasso libero, si passò alla soluzione con sorpasso alternato, come in questo caso presso Genova Pra (da "Genova-Savona andata e ritorno"): la corsia di sorpasso era utilizzabile alternativamente in una direzione o nell'altra, e un tratto neutro "zebrato" separava le singole tratte. E' con tale assetto che la Pegli-Albisola arrivò fino al completamento del raddoppio, nel 1975-77. In the last years, before building the second carriageway, the central lane was alternately used for overtaking in each direction. The last Italian motorway with this arrangement was A6 Savona-Torino up to 2001. |
Autostrade a 4 corsie Con l'Autosole, arrivano in Italia le autostrade a 4 corsie separate da spartitraffico, che risolvono alla radice il problema degli scontri frontali nei sorpassi. Qui un tratto della A7 Milano-Serravalle (da un volantino pubblicitario moderno). The Autostrada del Sole is the first one in Italy with 4 lanes and two separate carriageways. The photo shows the Milano-Serravalle (-Genova), with similar structure, opened in 1960. |
La "barriera" della Milano-Genova. |
L'immagine, pur di qualità indecorosa, è interessante perché mostra un'irriconoscibile Piazza Maggi, a Milano, oggi dotata di uno svincolo a più livelli e in piena zona urbanizzata. La foto è tratta da un volume propagandistico della Democrazia Cristiana milanese (La città, per una Milano moderna e democratica, 1960), in cui l'Amministrazione comunale si vantava di aver risolto il problema del collegamento delle autostrade alla città, costruendo appunto il raccordo di Piazza Maggi (costo 450 mln) e l'analogo da Corvetto all'imbocco dell'Autostrada del Sole. |
Si ripeteva così il copione della modernizzazione televisiva, in cui le pressioni dell'esecutivo avevano spianato la strada agli sforzi dei tecnici Rai: quando la classe dirigente si rendeva conto di avere tra le mani una leva di intervento e di potere molto forte e innovativa, tale da contenere in sé gli elementi di un nuovo consenso, usava tutte le armi della discrezionalità e dell'influenza, proprie di uno stato con regole e garanzie democratiche ancora molto imperfette, per giocare in contropiede la sua stessa burocrazia e promuovere e favorire l'innovazione che aveva scelto, o che le era stata suggerita [sapendo tutto quello che sarebbe successo poi, ci verrebbe da trovare in questa impostazione come una specie di rigore etico, qualcosa di comunque preferibile all'ignavia politica attuale].
I lavori dell'autostrada, divisi in lotti e aggiudicati a varie imprese, procedettero molto spediti; contrariamente alle tradizioni burocratiche delle opere pubbliche italiane, la progettazione esecutiva era molto elastica e si avvaleva largamente di professionisti e tecnici dei luoghi attraversati, anche per attutire l'impatto della nuova opera e allargare il consenso attorno ad essa. Gli intoppi, naturalmente, non mancarono. Anche la disponibilità dei terreni richiedeva lunghe procedure di fronte ad una grande quantità di proprietari da indennizzare. Si scelse, com'era prevedibile, la procedura di esproprio per ragioni di pubblica utilità e, per facilitare l'esecuzione degli atti, si ricorse - con un'interpretazione disinvolta della legge - ai decreti prefettizi di occupazione d'urgenza: un metodo possibile solo in pieno accordo con il governo; fino a Bologna furono necessari 2.135 decreti. Il risultato di queste procedure napoleoniche fu che dal dicembre 1958 l'autostrada era percorribile fino a Parma, con l'eccezione del lungo ponte sul Po, che era un'opera di grande impegno e con una portata simbolica significativa. Per risparmiare tempo fu proposta una struttura in cemento armato precompresso: una tecnica oggi normale ma allora innovativa, in cui le travi in cemento venivano costruite altrove e poi appoggiate, scorrendo su un'armatura provvisoria di metallo, sui piloni del ponte. La larghezza del fiume richiedeva un ponte lungo 1.176 metri e largo 18,50 (si era rinunziato alla corsia di sosta d'emergenza) e servivano 14 travi da 75 metri, una dimensione eccezionale per i tempi, più due agli estremi di 63 metri ciascuna. Mancava una legge o un regolamento sulle costruzioni in cemento precompresso; l'Anas sostenne ufficiosamente che, poiché aveva approvato il progetto di massima, la responsabilità delle singole opere era della concessionaria. Il ponte comunque fu fatto e per collaudarlo l'esercito mandò dieci carri armati che insieme a molti camion pieni di ghiaia si schierarono lungo le carreggiate. Il 15 giugno 1959 il ponte fu aperto al traffico.
Oltre Reggio Emilia il percorso dell'autostrada fu contestato. Da Milano fino alla periferia di Modena, infatti, l'autostrada correva a nord delle città e della via Emilia, il tradizionale asse stradale dalla Lombardia a Bologna. Poi però il progetto prevedeva una curva verso l'Appennino, correndo a sud di Modena e Bologna, in modo da imboccare subito la valle del Setta che doveva condurre l'autostrada verso Prato e Firenze. Il comune e la provincia di Modena sostenevano che questo percorso avrebbe costretto tutto il traffico pesante proveniente da Carpi o da Verona a traversare la città per entrare in autostrada. La città sentiva molto il problema del traffico perché era traversata da un capo all'altro dalla via Emilia e gli incidenti erano frequenti; temeva inoltre uno sconvolgimento urbanistico per il passaggio della nuova arteria, e forse in questa posizione degli amministratori socialcomunisti si esprimeva anche un'opposizione di principio alle autostrade. La polemica durò alcuni mesi; la soluzione che fu individuata con soddisfazione delle parti non concedeva nulla ad un eventuale massimalismo: Modena ebbe due stazioni, una a nord e una a sud, e così fu evitato l'attraversamento del centro da parte dei mezzi pesanti.
Più complessa era la posizione degli amministratori di Bologna. La città disponeva del progetto studiato dalla «Leonardo da Vinci» e sosteneva, con gli argomenti da esso forniti, che solo il passaggio a nord permetteva di collegare l'Autostrada del Sole con le future direttrici per Padova e per Rimini. L'ansia di far presto, e implicitamente di non cedere a nessuno la progettazione, rappresentava ancora una volta l'argomento principale. La soluzione fu trovata realizzando anche qui due stazioni (Bologna Borgo Panigale e Casalecchio) e con la mezza promessa di realizzare in futuro una circonvallazione per collegare le future autostrade per Padova e Rimini: quella che diventerà la Tangenziale di Bologna. I lavori ripresero: il 15 maggio 1959, insieme al ponte sul Po, si inaugurò il tratto Parma-Modena Sud e due mesi dopo, il 15 luglio, l'Autosole (come si cominciava a chiamarla) era interamente percorribile da Milano a Bologna [leggi la descrizione dalla Guida del Touring del 1966].
Le inaugurazioni delle opere pubbliche rappresentavano uno dei riti produttivistici della politica di allora, in cui eccelleva particolarmente il presidente del Consiglio Fanfani, che già si era distinto nell'inaugurazione del tratto fino a Parma. In questo caso però era necessario un atto di valore simbolico almeno pari alla posa della prima pietra. Per tagliare il nastro tricolore, questa volta dell'autostrada effettivamente costruita e non di una finta, tornò quindi il presidente della Repubblica Gronchi [la posa della prima pietra, come descritto in un altro capitolo, avvenne il 19 maggio 1956, appena un mese dopo la firma della convenzione - il 27 c'erano le elezioni amministrative - alla presenza di Gronchi e dell'Arcivescovo Montini; per avere qualcosa di visibile da mostrare, vennero costruiti 100 metri di finta autostrada, a San Donato Milanese, dove stava sorgendo Metanopoli].
Le foto ufficiali ci mostrano l'arrivo delle auto nere del corteo presidenziale, precedute da dieci motociclisti della Stradale, e poi la cerimonia a Casalecchio. Due corazzieri in alta uniforme, dall'elmo con la lunga chioma, salutano militarmente un casellante in divisa della società Autostrade stringe un vassoio d'argento con le mani guantate di bianco; il presidente con gli occhiali da sole taglia il nastro sorridendo e Fedele Cova lo regge con la mano, da vero patron della manifestazione. Dietro, si indovina un coro di notabili, ufficiali, autorità, religiosi. Tre anni e due mesi erano trascorsi dalla surreale cerimonia di San Donato Milanese e in quel breve tempo erano stati costruiti oltre 220 chilometri di autostrada: 188 da Milano a Bologna, più i 33 del tratto Napoli-Capua, aperto da febbraio, che costituiva una specie di «assicurazione sulla vita» a tutela dell'integrità del progetto originario. L'autostrada era ormai una realtà con cui si dovevano fare i conti, anche se mancava ancora la prova più difficile, l'attraversamento dell'Appennino.
L'Appennino che sta fra Bologna e Firenze divide due mondi: dal lato emiliano il mondo delle pianure, dei campi lunghi e dei braccianti, dall'altro quello delle colline, delle viti e degli olivi, dei mezzadri. Un confine culturale e linguistico netto, che è anche politico; idee politiche apparentemente simili sorrette da argomenti assai diversi tra loro. Collega le due città una strada costruita alla fine del Settecento, che si inerpica per i passi della Raticosa e della Futa dopo aver lasciato, alle Filigare, la vecchia dogana tra lo Stato della Chiesa e il Granducato di Toscana; una strada buona per il Giro d'Italia e per la Mille Miglia, piena di saliscendi e di svolte, ma temuta da vetture e camion non tanto per l'altezza raggiunta (903 metri), quanto per la durezza delle salite soprattutto nel tratto toscano. Il terreno è arido e argilloso, instabile, franoso.
Gli autotreni preferivano sempre proseguire per Cesena e poi, attraverso il passo di Montecoronaro, per Perugia e Roma; oppure per Fano, Foligno, Terni. Le alternative alla Futa erano poche: le strette rampe del passo della Collina e quelle di Montepiano, oppure la vecchia strada militare asburgica che univa l'Austria al Ducato di Lucca e al Granducato di Toscana, attraverso il Brennero, Verona, Modena e il passo dell'Abetone: un percorso affascinante, purché si fosse disposti a salire fino a 1.388 metri.
La ferrovia aveva risolto brillantemente il problema del collegamento Bologna-Firenze per gradi. Prima con la ferrovia Porrettana, che portava a Pistoia con una linea ad un solo binario, dalle ardite opere d'arte ma in forte pendenza; successivamente con una linea «direttissima», una soluzione di avanguardia progettata nel 1911 e completata nel 1931 [vedi altri dettagli], provvista di una galleria a due binari lunga più di 18 chilometri sotto il passo di Montepiano, la seconda del mondo dopo quella del Sempione. Era per i tempi un capolavoro della tecnica: nel cuore della galleria c'era addirittura una stazione, detta delle «precedenze», che si vedeva, tutta illuminata, passando col treno. Ricordo di essere stato portato in divisa di boy-scout, in virtù di non so quale speciale autorizzazione, a visitare la stazione nella galleria. I treni non vi fermavano mai, ma il nostro sostò per qualche istante. Ci fecero scendere in fretta, poi visitammo quel mondo sotterraneo nel quale, ogni pochi minuti, risuonava il fischio di un convoglio in transito a gran velocità, e tutto vibrava da impazzire. Un lunghissimo cunicolo in salita, con più di duemila scalini, portava all'aperto, sopra il monte. Lo salimmo lentamente, in fila, come un'ascensione dantesca, fino a sentire l'aria fresca della montagna; poi proseguimmo con lo zaino in spalla fino a un paese chiamato Baragazza e al santuario alpestre di Bocca di Rio, che era la nostra meta di scout cattolici.
Fieri della loro «direttissima», bolognesi e fiorentini utilizzavano per comunicare tra loro soprattutto il treno: soltanto un'ora di viaggio, sotto le rupi e i santuari dell'Appennino. Usare la macchina, soprattutto nella cattiva stagione quando la neve cadeva abbondante sull'Appennino, appariva una stranezza. Per capovolgere questo giudizio i progettisti dell'autostrada si gettarono a capofitto nell'impresa, in cui videro certamente un'affermazione della modernità; in realtà il loro progetto era più vulnerabile di quello che, cinquant'anni prima, era stato per la ferrovia.
Il percorso prescelto superava il Reno a sud di Sasso Marconi, alle porte di Bologna, proprio là dove un colpo di fucile, dietro una collina, aveva annunziato l'invenzione della radio da parte del giovane Guglielmo. Il tracciato divergeva poi dalla ferrovia Porrettana, risaliva la valle del torrente Setta e altre minori fino al valico del Citerna, che nessuna strada aveva mai utilizzato, e che superava con una galleria lunga 680 metri a 726 metri di quota. Di lì scendeva a curve nel Mugello e poi a Calenzano, dove in pianura si raggiungeva Firenze. In meno di novanta chilometri c'erano 67 ponti e viadotti e 24 gallerie, che insieme coprono più di metà del percorso. I terreni erano franosi e inaffidabili; le condizioni climatiche rigide. Per l'ansia di far presto e di consegnare la Milano-Firenze entro il 1960, come prevedeva la convenzione, l'opera era divisa in lotti ed ogni impresa assegnataria doveva progettare in proprio le singole opere d'arte ed effettuare i calcoli relativi, prima di costruirle. Poiché un'impresa non poteva ottenere più di un lotto, sul tratto appenninico lavorarono 27 progettisti diversi; questo è il motivo per cui ponti e viadotti ci appaiono oggi l'uno diverso dall'altro, in ferro, in cemento armato precompresso oppure ad arco, il sistema più antico, ma più affidabile per le valli più profonde, utilizzando talvolta, senza smontarla, l'impalcatura servita per costruire il ponte di una carreggiata anche per costruire la seconda, spostandola in una sola giornata di lavoro.
La A10 originale Al pari della tratta appenninica dell'Autosole, la parte più antica della Genova - Savona (Voltri-Varazze, 1956-57) si distingue per i bellissimi viadotti ad arco parabolico, come questo, sul torrente Cerusa, all'estrema periferia della "grande Genova", in un contesto urbano multiforme di antico e moderno. The ancient part of Genova-Savona motorway, built between 1951 and 1957, shows interesting viaducts, with parabolic arches, similar to those used by Autostrada del Sole along the Appennini section. |
Il viadotto Cantarena di Arenzano (190 m), con i suoi tre archi, ha caratterizzato per 20 anni il paesaggio di questo celebre centro rivierasco (il raddoppio del 1976 ha purtroppo sovrapposto agli archi i piloni della nuova carreggiata, offuscandone molto la linea stilistica). |
Il viadotto Polcevera di Genova (A10) Inaugurato nel settembre 1967, il viadotto Polcevera rappresenta una pietra miliare nella storia delle autostrade italiane, sia per la complessità della soluzione tecnica, sia per l'elevato risultato estetico. Solo dopo il drammatico crollo del 2018, anche il comune cittadino ha potuto comprendere quanto si fossero sottovalutati l'intrinseca delicatezza strutturale e l'invecchiamento del calcestruzzo armato (che era un fenomeno pressoché ignorato al tempo della realizzazione) e infine quanto sia stata gravemente trascurata la manutenzione. Con il senno di poi, è facile immaginare che una struttura tanto singolare, realizzata in appena quattro o cinque esemplari al mondo, avesse un carattere sperimentale del tutto inadatto a gestire permanentemente sul lungo periodo un traffico ordinario intenso. Ed è anche inevitabile annotare come il viadotto che l'ha sostituito abbia potuto prescindere dai vincoli che allora avevano fatto scegliere quella soluzione: in particolare il non interrompere il traffico dello scalo ferroviario ferroviario sottostante - visibile nella foto - che nel 1967 era imprescindibile e nel 2018 scomparso. The Polcevera Viaduct, connecting A7 to A10, west of Genoa, was completed in 1967 and represents a milestone in the history of Italian motorways. Its complex structure, designed by Riccardo Morandi, successfully solved the problem of stepping over an urban area almost completely built. |
Vista d'infilata verso ovest (immagine tratta da un libro di architettura). |
Il viadotto completato e in esercizio, nell'inquadratura classica dal lato del raccordo con la A7. L'immagine è tratta da uno di quegli opuscoli dedicati alle Regioni, che negli anni Settanta si usavano per le ricerche scolastiche, in tempi ben lontani da Internet... |
Per fare più presto si lavorava a turni, senza interruzione, 24 ore su 24. Gli operai, quasi tutti montanari dei paesi più poveri dell'Appennino, vivevano nelle baracche costruite di fianco ai cantieri, in condizioni estreme e arcaiche. Il cappellano del cantiere di Barberino di Mugello era don Renzo Forconi, priore della chiesa di S. Lucia alla Futa, non lontana da Barbiana dov'era priore don Milani. Nel maggio 1959 il cappellano portò 400 lavoratori in udienza dal papa, che era Giovanni XXIII. Il pontefice ebbe parole di apprezzamento per l'impresa: «Voglia Iddio che questa ardimentosa e nobile fatica segni il congiungimento felice dei punti più lontani della penisola». Intanto gli alunni della quinta elementare di Baragazza (il paese del santuario di Bocca di Rio), quasi tutti figli di lavoratori dei cantieri, mandavano a Fedele Cova, datore di lavoro dei loro padri, un album con fotografie e disegni fatti a scuola. Il premio che ricevettero da Cova, in un momento di compiaciuto paternalismo, dice molte cose: la promessa di una visita all'autostrada quando fosse stata finita e, intanto, un paio di scarpe a testa.
Con tutta questa fatica l'autostrada fino a Firenze Nord, dove incontrava la vecchia Firenze-Mare, fu effettivamente pronta nel dicembre del 1960. Era costata tanto denaro (71 miliardi, contro i 44 dell'intera Milano-Bologna [pari rispettivamente a 840 e 520 milioni di Euro del 2008 - cifre che ci paiono inferiori a quanto costano oggi opere simili, ma ci ripromettiamo un'analisi più approfondita]) molti sacrifici, e anche molte vite: quindici morti e più di 3.000 infortuni sul lavoro. Fu inaugurata dal presidente del Consiglio Fanfani, toscano delle montagne aretine, che nel suo discorso bolognese, alla vigilia del centenario non si trattenne dal citare il Risorgimento e l'Unità d'Italia: questa volta anche «L'Unità» e «L'Avanti!» parlarono dell'autostrada. Lodarono l'opera, ma criticarono i ritardi, le tariffe eccessive, la speculazione dei terreni, gli infortuni sul lavoro.
Mentre Fedele Cova insieme ad Ezio Vanoni presentava ai giornalisti l'autostrada e Fanfani preparava il suo discorso, più modestamente quasi tutte le famiglie di Firenze che disponevano di qualche mezzo di trasporto decisero una gita domenicale a Bologna, bambini e nonni compresi, anche perché eccezionalmente, per festeggiare l'inaugurazione, non si pagava pedaggio.
Mentre salivamo verso Barberino sulla strada tutta nuova ci sembrava di essere in un paese straniero. Quel panorama dei monti della Calvana non si era mai visto, nemmeno per chi li aveva percorsi tutti, zaino in spalla sul crinale, alla ricerca di quelle «aree sacre» preromane di cui parlava qualche libro di un erudito locale; i nomi erano sconosciuti come i paesaggi e mai sentiti: Aglio, Roncobilaccio, Pian del Voglio, che qualcuno dopo tutte quelle salite aveva ribattezzato giustamente, con la complicità delle scritte all'inverso sull'asfalto, «voglio del pian». Bologna era a un'ora di macchina; un'ora e mezza, calcolando l'immancabile dolor di testa o di stomaco di qualche zia seduta sul sedile posteriore. Una meta domenicale, un territorio familiare; non più solo quella grande stazione dal dialetto diverso in cui, andando verso il nord, c'era un venditore ambulante apposito per le lasagne al forno, che ti consegnava calde attraverso il finestrino, impacchettate nella carta bianca, con la forchettina di legno e la bustina del sale ["Da Bolzano alla Calabria la gente saliva con la bava alla bocca, immaginando la sosta alla stazione di Bologna come occasione per arrivare a un carrello di vivande calde: lasagne semoventi che si spostavano lungo il marciapiede, «ma sarebbero arrivati fino al mio vagone prima della partenza del treno?»", Marco Paolini, Binario Illegale... piccola citazione interdisciplinare!].
L'autostrada Bologna-Firenze non era l'erede (più rapida ed efficiente) di un sistema di trasporto automobilistico precedente; un po' come per le ferrovie americane (secondo un'annotazione di Max Weber) non si trattava di facilitare la comunicazione, ma di crearla. Non si trattò però di un processo indolore, né di una conquista definitiva, per la difficoltà del tracciato e il carico eccessivo che presto iniziò a percorrere il nastro d'asfalto, a consumarlo, a deteriorarlo. Nel primo anno di esercizio passarono per la Bologna-Firenze soltanto 6.000 veicoli al giorno, di cui il 21% erano camion. Nel 1990 erano diventati 40.000 al giorno con una percentuale di mezzi pesanti del 27%; due terzi del traffico di merci fra nord e sud passa di qua. La manutenzione costa ogni anno quanto fu speso per costruire l'autostrada. Il valico è troppo alto, e la neve d'inverno rende il transito ancora più difficile; basta un nulla per bloccare il principale collegamento stradale fra il nord e il sud. La variante di cui si discute da quindici anni dovrebbe raggiungere un'altitudine di soli 450 metri, superando il valico con una galleria molto più lunga, di 9 chilometri. Come, dagli anni Trenta, fa la ferrovia [con un'importante differenza, che ci pare il caso di annotare: una lunga galleria ferroviaria è ancora una volta una tecnologia matura, sperimentata da oltre un secolo e ragionevolmente sicura; al contrario gli incidenti del Monte Bianco (1999) e poi del Gottardo hanno mostrato quanto delicata sia una galleria stradale, e quanto costoso possa essere il tentare di garantirne un funzionamento in sicurezza].
Pubblicità automobilistica nel 1964 |
La pubblicità arriva dal risguardo della carta 1:200.000 del TCI, quasi certamente con un'immagine dell'Autosole. An advertisement by Esso (Exxon oil company), which says "We go without any timetable or time constraint. There is something wonderful in this freedom". It's a bit sad to read it now, as the decline of railway is clearly related to perceptions like this one. This is why we propose the new slogan "In such a way I go everywhere, everyday", claiming a similar freedom of movement even for railway, for a modern railway that we want to build. |
[Il capitolo successivo ricorda che "La Società Autostrade aveva aperto 320 chilometri di autostrade, da Milano a Firenze e da Capua a Napoli, e aveva in corso lavori per altri 250 chilometri; si era così conquistata una fama di efficienza modernizzatrice, introducendo l'idea dell'autostrada come strumento della modernità in larghe fasce della cultura diffusa, anche in quelle, come dimostravano le vertenze con i comuni emiliani, che si riconoscevano nella sinistra comunista e di opposizione" ma la situazione finanziaria della Società era drammatica, dato che essa non aveva potuto godere di alcuna esenzione fiscale e quindi ogni finanziamento era gravato non solo dagli interessi ma almeno dal 25% di tasse (a chi scrive viene spontaneo ricordare, in un campo non così dissimile, come i sussidi che le Regioni pagano a Trenitalia sia soggetti al 10% d'Iva).
La Società Autostrade, facendo leva su indicatori che mostrassero la prevedibile crescita del trasporto automobilistico, propose allora un Piano di sviluppo autostradale di quasi 7000 km, di cui 1800 erano in esercizio o in costruzione. Di questi 7000, 2100 avrebbero potuto assicurare qualche economicità di gestione: la Società Autostrade si offriva dunque di realizzarli, a pedaggio, e in cambio chiedeva l'esenzione fiscale sulle obbligazioni a lunga scadenza, che, insieme alla stessa costruzione delle nuove autostrade, avrebbe contribuito a sanare i suoi bilanci. Le restanti tratte avrebbero dovuto essere realizzate dall'Anas e non essere a pedaggio.
Il Piano, sostenuto tra l'altro dal mensile "Quattroruote", divenne la legge 729 del 24 luglio 1961. Rispetto alla versione d'origine, la Società Autostrade doveva accollarsi anche qualche tratta a pedaggio ma realisticamente in perdita, come ad esempio la Napoli-Canosa e la Pescara-Bari, ma "guadagnava" il raddoppio di tutte le autostrade prebelliche, che, come abbiamo accennato, erano da ricostruire a doppia carreggiata. Rimase invece all'Anas, e dunque gratuita, la Salerno-Reggio Calabria, che Cova assolutamente non volle.
Forte dei vantaggi della nuova legge, la Società Autostrade proseguì con la costruzione dell'Autosole, che venne completata nel 1962 tra Roma e Napoli e infine il 4 ottobre 1964 tra Firenze e Roma, ultimo tratto mancante.
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Per reazione alle aree di servizio tutte uguali dell'Agip, Motta si inventò i Mottagrill, Alemagna gli Autobar. Il Mottagrill o Autogrill Pavesi sorgeva ben distanziato dal distributore di benzina; la sua architettura era comunque strana, funzionalista o moresca, barocca o da stazione spaziale, ma comunque di un eclettismo americano; grande la dovizia di luci colorate, bandiere di tutti i paesi, vetrate, scritte pubblicitarie, porte battenti tipo saloon. Un apposito cartello avvertiva che le bandiere erano quelle dei paesi «in cui si esportano i Pavesini».
All'interno, asettici camerieri e cassiere in divisa e con il marchio della ditta e il numero, come le hostess delle linee aeree; una soluzione importata pari pari dalle grandi catene di ristoranti e fast food americani, paracadutata in un'Italia di osti grassocci e ostesse casalinghe, di trattorie della frasca e di cantine odorose di vini e prosciutti, in cui proprio allora Mario Soldati stava conducendo il suo Viaggio nella valle del Po alla ricerca dei cibi genuini (in TV dal 3 dicembre 1957). Nell'autogrill enormi lampadari di cristallo, generosi banconi bar, gabinetti per un reggimento, batterie di telefoni a gettone [di cui al giorno d'oggi credo di essere rimasto uno dei pochi utilizzatori!] e un reparto ristorante diviso in self-service e tradizionale, sovrastato dall'immancabile griglia (il nome grill non era stato dato a caso) dove uno chef sorridente dal grande cappello bianco e il grembiule immacolato tagliava e serviva i cibi di una tradizione aliena, come il roastbeef o il tacchino: volatile ancora pressoché assente dalle tavole degli italiani, ben contenti di riuscire a mangiare alla domenica un pollo, allora considerato ancora un piatto di lusso e ruspante, prima degli allevamenti in batteria e dell'avvento delle rosticcerie all'angolo della strada.
Nel 1959 il pranzo tipo in autogrill costava 750 lire [circa 9 Euro del 2008] e comprendeva, testualmente: consommé, roastbeef o pollo alla griglia con patate chips, burro, formaggio e crackers-soda Pavesi, dolce con Pavesini. Appositi cartelli avvertivano, forse per giustificarsi dell'assenza del pane e della pasta asciutta, che le tabelle dietetiche erano razionalmente calcolate per le esigenze della guida. Gli italiani abbozzarono e sorbirono volentieri il consommé servito dalle hostess, finché il ritorno della dieta mediterranea legittimò nuovamente pasta, pizza, pane.
Ogni carreggiata richiedeva il suo autogrill. Non si poteva certo permettere che l'automobilista distratto, per prendersi un panino, effettuasse la micidiale conversione a U. Certo, era un peccato (e un nonsenso economico) costruire due bar e ristoranti identici, uno di fronte all'altro. Si pensò di costruire il ristorante da una parte sola, lasciando dall'altra solo il bar: un sottopassaggio permetteva di traversare l'autostrada andando a piedi al ristorante, ma andarci a piedi era, per un popolo di automobilisti carichi di bagagli, poco invitante.
Nel 1959 il progettista degli Autogrill Pavesi, l'architetto Angelo Bianchetti, progetta per l'area di servizio di Fiorenzuola d'Arda, presso Piacenza, il primo autogrill «a ponte» che serve entrambe le carreggiate collocato com'è sopra di esse. Lo stesso Bianchetti onestamente cita le sue fonti: il modello è americano, il ristorante Oasis della catena Fred Harvey di Chicago. Tutto d'acciaio, costruito in soli quattro mesi mentre al di sotto già scorre il traffico dell'autostrada, l'autogrill-ponte di Fiorenzuola è il primo di questo tipo in Europa. Due rampe di scale esterne ai lati, bene in vista, dimostrano che si può veramente accedere a quel mondo delle meraviglie, che non è un'astronave marziana atterrata in mezzo alla pianura padana; naturalmente, c'è anche una batteria di ascensori. La galleria vetrata sopra l'autostrada, sormontata dalla scritta «Pavesi» e dalle solite bandiere, è tutta riservata al ristorante, con i tavoli migliori con vista sull'autostrada: si prova una particolare emozione a consumare un pasto leggero, in linea con le tabelle dietetiche, mentre sfrecciano le auto sotto di noi.
Grande è la risonanza di Fiorenzuola d'Arda e la concorrenza risponde prontamente con il Mottagrill di Cantagallo, alle porte di Bologna. L'architetto Melchiorre Bega mette a punto in una curva micidiale del percorso, proprio dove inizia il «tratto appenninico (moderare la velocità)», un Mottagrill a ponte, una specie di transatlantico varato sulle carreggiate, con doppio gran pavese di bandiere e due pennoni multipli su cui trovano posto l'insegna della Motta e quella della benzina Bp. Lo ricordiamo con affetto perché non moltissimi anni fa un incendio lo ha completamente distrutto. Per quasi un anno è rimasto solo un traliccio annerito dal fuoco, poi è stato ricostruito in forma molto più sobria, anonima e senza qualità, con un tetto di rame su cui campeggia la scritta enorme «aperto 24 ore». Nessuna voce si è levata per chiedere la ricostruzione «com'era e dov'era» del massimo monumento neobarocco del Novecento italiano.
Gli autogrill a ponte |
Autogrill «Brembo» sulla A4 Abbiamo provato a visitare oggi uno dei 12 autogrill a ponte, cercando di immaginare le atmosfere che si respiravano negli anni Sessanta... e forse ci siamo riusciti: il lungo corridoio affacciato sulle carreggiate, le vetrate sui due lati, la sala del ristorante ampia e accogliente, le scale d'accesso, il poter ridiscendere dall'altra parte, ci sono sembrati tutti dettagli molto precisi, differenti dagli spazi chiusi, quasi claustrofobici di una qualunque area di servizio. Ecco due scatti di una sera d'inverno. Only 12 service areas, along the Italian motorway network, have a bridge restaurant, built over the two carriageways, and all them come from the Sixties. I've visited one of them, near Bergamo, and took some photos. |
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Intere famiglie partivano per la gita domenicale, un nuovo rito.
Per famiglie come queste, altri autogrill-ponte sorgeranno nelle aree di servizio Chianti, Montepulciano, Feronia, Frascati; poi basta. Su tutte le autostrade italiane, i ponti non sono più di dodici, tutti costruiti fino agli anni Sessanta. Col tempo, la sosta è diventata più breve, tutto è diventato fast: il pagamento del pedaggio, lo spuntino nel bar, il rifornimento di benzina che vuole ricordare il pit stop ai box della Formula uno. I tempi individuali si sono svincolati dalle convenzioni, la società è meno sincrona di un tempo; l'apertura notturna diventa assai più importante di un trofeo di bandiere colorate. La sosta sul «ponte» è necessariamente più lenta ed elaborata; l'attesa dell'ascensore, la salita al piano superiore, lo sguardo inevitabile sul traffico sottostante attengono più alla visita ad una fiera che alla sosta tecnica.
Dall'Atlante 1:200'000 del Touring, anni 2003-2004, risultano 13 aree di servizio a ponte (forse c'è un'intrusa, rispetto alle 12 indicate dal testo!):
A1 |
Arda (Piacenza) Cantagallo (Bologna) Chianti (Firenze) Montepulciano Feronia (Roma, oggi A1 dir.) |
A4 |
Novara Brembo (Bergamo) Sebino (Brescia) Scaligera (Verona) Limenella (Padova) |
A2 | Frascati (Roma, oggi A1 dir.) | A7 | Dorno (Pavia) |
A11 | Serravalle (Pistoia) |
Il 16 ottobre 1973, dieci giorni dopo la guerra del Kippur scatenata contro Israele, i ministri del petrolio dell'Opec, l'organizzazione dei paesi esportatori di petrolio egemonizzata dai paesi arabi, da Vienna annunziavano che avrebbero fissato unilateralmente i prezzi del petrolio greggio, senza concordarlo con le grandi compagnie petrolifere internazionali.
Già l'indomani il petrolio era diventato uno strumento di pressione geopolitica; l'unico, sostanzialmente, di cui disponessero i paesi arabi. La produzione di petrolio venne ridotta per costringere Israele a ritirarsi dai Territori. L'embargo contro gli Stati Uniti, che avevano sostenuto Israele, e contro l'Olanda (cioè contro la Shell), più la contrazione della produzione, provocarono un aumento immediato del prezzo del 70%: il barile non costava più 3 dollari ma 5,12 e, a dicembre, a 11,60. A metà dicembre il petrolio iraniano costava 17 dollari. La benzina non si trovava più, l'economia dei paesi industrializzati sembrava in ginocchio.
Non era stato un fulmine a ciel sereno. Le fragili classi dirigenti dei paesi emergenti dovevano necessariamente rinegoziare le concessioni petrolifere dell'epoca coloniale, ed elevare i prezzi dell'unico loro prodotto che interessava veramente le economie dei paesi sviluppati; anzi, che era fondamentale per il loro funzionamento.
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L'automobile era indispensabile, anche perché le nuove città crescevano in fretta, senza servizi e senza collegamenti. Adesso tutto questo veniva bruscamente a mancare. Fu un black-out, come fu giustamente chiamato; come se la luce si fosse spenta d'improvviso. Tutti si resero conto allora di quanti apparecchi, una volta manuali e artigianali, erano mossi dall'energia elettrica e ormai dipendenti in tutto da una rete mondiale di approvvigionamenti. Si capì che l'energia elettrica non era più il «carbone bianco» delle dighe delle Alpi, come appariva in certi libri delle elementari, ma un prodotto della combustione del petrolio, che adesso gli arabi, non più servi ossequienti, volevano farci pagare in misura proporzionale al bisogno che ne avevamo. Qualcuno se la prese con loro, ma in fondo era difficile dar loro torto. Tutti capimmo che lo stato-nazione di Garibaldi e di Cavour non c'era più, che il mondo era globalizzato e ogni evento importante si ripercuoteva ai quattro angoli del mondo in pochi minuti.
Vi fu un cambiamento nello spirito pubblico, e in strati abbastanza larghi dei ceti dirigenti. Con la subitaneità di un verdetto, il giudizio sulla motorizzazione passò da un estremo all'altro. L'automobile, che era stata presentata come simbolo di libertà e di benessere, appariva adesso come qualche cosa che non riusciva a mantenere le sue promesse perché la congestione e il traffico la paralizzavano, che poteva inquinare, che rimaneva attaccata ad un'etica individualista poco attenta all'interesse collettivo. L'autostrada da strumento di un'epopea nazionale fu declassata rapidamente, dalle élite e poi dal senso comune, ad «opera del regime», a deturpazione del paesaggio, a macchina mangia-soldi: l'aumentato costo del denaro, del resto, aveva aumentato ai limiti dell'intollerabile i costi della costruzione.
Si era - occorre ricordarlo - in quella prima metà degli anni Settanta in cui sembravano declinare insieme il ruolo dirigente della Democrazia cristiana e le ambizioni modernizzanti del Centro-sinistra. Le autostrade più recenti, ancora incompiute, erano apparse come concessioni municipalistiche o episodi di una lotta fra ras provinciali dei partiti di governo: o almeno così erano state indicate polemicamente dalle opposizioni e, in assenza di valide confutazioni, tali argomenti erano stati assorbiti dal senso comune. Così per l'autostrada Genova Voltri-Gravellona Toce, detta l'«Autostrada dei Trafori» per le ardite opere di ingegneria degli oltre 260 chilometri del percorso, diramazioni comprese, buona parte delle quali sui feudi elettorali del ministro dei Lavori pubblici, il socialdemocratico Franco Nicolazzi; oppure per l'incompiuta Trento-Vicenza-Rovigo o «Pirubi» (Piccoli-Rumor-Bisaglia) che avrebbe dovuto unire, in un impervio e costoso tracciato montano, le province del Nord-est dominate dai tre leader democristiani.
Il caso più scandaloso, tuttavia, appariva quello delle autostrade romano-abruzzesi. In una regione di scarso traffico [rimasta sostanzialmente tale ancora oggi], che però era anche quella del potente ministro democristiano Remo Gaspari, per unire Roma all'Aquila e a Pescara non si era trovato di meglio che progettare due tronchi: il primo da Roma puntava direttamente sull'Adriatico e su Pescara; l'altro se ne distaccava poco prima di Avezzano, raggiungeva L'Aquila e di lì si dirigeva verso l'Adriatico all'altezza di Teramo, soltanto trenta chilometri più a nord. Un doppione di 51 chilometri di cui più di 7 su viadotto e quasi 12 in galleria, compreso un tunnel a doppia carreggiata sotto il Gran Sasso di oltre 10 chilometri. La realizzazione della galleria si dimostrò ben più difficile, lunga e onerosa del previsto, fino a travolgere nei debiti la società concessionaria Sara, a cui nel 1977 subentrò l'Anas. Finalmente il doppio tunnel fu realizzato, con 16 anni di lavoro e 400 miliardi di spesa, nel 1984. Una sola delle due carreggiate è stata utilizzata per il traffico veicolare, mentre l'altra è stata adibita a laboratorio sotterraneo di fisica nucleare.
Queste erano le condizioni quando lo sviluppo autostradale fu interrotto da un evento improvviso. Si trattava di un episodio abbastanza frequente nella vita parlamentare: l'approvazione di uno dei tanti decreti-legge, che pena la decadenza devono essere convertiti in legge dal Parlamento entro sessanta giorni e che rappresentavano (talvolta rappresentano ancora oggi) una corsa contro il tempo e contro le opposizioni, spesso evitata dalla contrattazione di emendamenti concordati, ritenuti utili dalle varie parti politiche di governo e di opposizione. Il DL 13 agosto 1975, n. 379 («Provvedimenti per il rilancio dell'economia riguardante le esportazioni, l'edilizia e le opere pubbliche»), era un classico provvedimento omnibus: un convoglio di disposizioni varie, grandi e piccole, riunificate per meglio sfuggire ai siluri del voto parlamentare. In sede di conversione, fu aggiunto un art. 18 bis che recita: «è altresì sospesa la costruzione di nuove autostrade o tratte autostradali e di trafori di cui non sia stato effettuato l'appalto, ancorché assentiti amministrativamente».
Si fermò così la costruzione delle autostrade per quella che fu chiamata una «pausa di riflessione». Essa durò sette anni: solo nel 1982, con la L. 531, furono riprese nuove costruzioni. Tuttavia molte opere allora non appaltate (ad esempio l'autostrada tirrenica fra Livorno e Civitavecchia) non sono state più compiute e sono divenute, per vari motivi ambientali o di compatibilità, improponibili [anche se sembra che qualcuno le stia riproponendo ora, nonostante l'esistenza di una superstrada parallela...]. Nessuno è più disposto a giurare che vi sia una correlazione positiva (che pure in passato indubbiamente c'è stata, in casi determinati) tra la realizzazione di grandi arterie stradali, lo sviluppo economico, il benessere. Per costruirle ci si affida sempre più ai finanziamenti per eventi eccezionali (come i Campionati di calcio del 1990, o le Colombiadi del 1992), secondo la logica del «convoglio» sopra illustrata. Ma la concomitanza tra grandi programmi di opere pubbliche ed eventi speciali, come nel caso del Giubileo del 2000, desta ancora maggiori e più fondate diffidenze [e diffidenze molto, molto maggiori, in chi commenta, le desta l'Expo del 2015, che si preannuncia come l'occasione, il pretesto, la giustificazione per diluvi di cemento di cui Milano non avrebbe proprio bisogno].
Si può dunque affermare con relativa certezza che il periodo d'oro della costruzione delle autostrade, innescato dall'Autosole e poi proseguito fino al 1975, era finito per sempre; con esso terminava una piccola epopea nazionale. La costruzione esemplare dell'Autostrada del Sole era così sottratta alla cronaca, alle passioni, a ricordi e testimonianze frammentarie per diventare un episodio, fra tanti altri, della modernizzazione dell'Italia.
Un ringraziamento particolare, ovviamente, a Enrico Menduni, di cui ho apprezzato non solo l'evidente passione storica, ma anche lo stile di scrittura e la cura per il dettaglio. Se passasse da queste parti, gli sarei grato se mi facesse un cenno.
Molti dati cronologici derivano dalle preziose tabelle di Eugenio A. Merzagora, revisione 8 del giugno 2006, nell'ambito del sito "The World's longest Tunnel Page". Alcune date delle autostrade liguri sono state perfezionate sulla base del volume "Genova-Savona andata e ritorno" di C. Bozzano, R. Pastore e C. Serra, Fratelli Frilli Editori, 2007.
Materiale di riferimento / Reference material
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