Scritto da Silvia Adorno a settembre 2010
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L'idea alla base del motore elettrico è quella dell'induzione elettromagnetica, ovvero il fatto che una corrente circolante in una spira produce un campo magnetico, e a sua volta un campo magnetico variabile può indurre una differenza di potenziale, e quindi una corrente, ai capi di un circuito.
Il motore è generalmente composto da una parte fissa, detta statore, e da una mobile, il rotore. Sia il rotore, sia lo statore sono fatti di bobine, cioè avvolgimenti (spire) in cui scorre corrente.
In particolare, consideriamo il caso di un motore trifase a sei poli. Lo statore è composto da sei avvolgimenti percorsi da corrente alternata. Le correnti che scorrono nei poli sono tutte uguali in ampiezza e frequenza ma differiscono per la loro fase, essendo sfasate di un angolo di 120°. Questo significa che quando una delle fasi è al suo massimo (ad esempio A, in corrispondenza della linea grigia verticale) le altre due hanno ampiezza minore e uguale fra loro.
Poiché il campo magnetico prodotto è direttamente proporzionale all'intensità della corrente, A "comanda", mentre i contributi di B e C si compensano fra loro: il campo magnetico risultante sarà quindi disposto come nella figura seguente a sinistra. Appare ora chiaro come i due poli associati a ciascuna fase si comportino come i poli di una calamita.
Poiché, però, la corrente è alternata, ovvero sinusoidale, ad un istante successivo la corrente in A sarà diminuita mentre sarà cresciuta quella in B: il campo magnetico quindi ruota allineandosi ai due poli di B, e successivamente a quelli di C (figure al centro e a destra). Il movimento continua lungo un intero ciclo, producendo una rotazione completa del campo: abbiamo quindi un campo intrinsecamente rotante, che può essere utilizzato per muovere le parti meccaniche.
La parte mobile del motore è il rotore, anch'esso composto da bobine avvolte. Queste bobine, nel motore trifase che stiamo considerando (a differenza di quello a corrente continua), non sono alimentate dall'esterno; tuttavia, non solo la corrente è in grado di produrre un campo magnetico, ma anche il campo magnetico, ruotando e quindi variando la propria posizione rispetto alla bobina è in grado di indurre nelle bobine stesse una differenza di potenziale, e quindi una nuova corrente e un secondo campo magnetico, analogo a quello dello statore (tecnicamente, è la legge di Faraday: il campo, ruotando, modifica il proprio angolo di incidenza rispetto al piano della spira, e quindi il flusso del campo magnetico varia e produce una differenza di potenziale). I due campi, primario e secondario, tendono ad allinearsi (in modo analogo a quanto fanno le calamite) e quindi il rotore si mette in rotazione e insegue il moto del campo dello statore: abbiamo cioè ottenuto il moto meccanico rotatorio.
In serie al rotore si trova un reostato, cioè una resistenza variabile: questo viene inserito (cioè collegato) all'avviamento, e poi progressivamente escluso (cioè ne viene ridotta la resistenza fino ad annullarla). Esso ha il compito di consentire l'avviamento del motore, e dunque della locomotiva, mantenendo la corrente entro valori accettabili. All'avviamento, infatti, il rotore è fermo e quindi la variazione di flusso, la differenza di tensione e dunque la corrente sono massime, e non sarebbero fisicamente sopportabili dai circuiti della locomotiva.
Si osservi che il motore trifase fin qui descritto è asincrono, cioè il rotore gira un po' più lentamente del campo (circa l'1-2% in meno, nei nostri casi ferroviari). Se così non fosse, quando le due velocità divenissero uguali, si annullerebbero la differenza di potenziale nel rotore, la corrente e il campo secondario, e quindi il movimento si fermerebbe. Il rallentamento del rotore, detto anche scorrimento, è dovuto proprio al carico, ovvero alla resistenza meccanica da vincere per muovere il mezzo. Se la locomotiva è in discesa, il motore trifase funziona spontaneamente da generatore di corrente ed esercita un'azione frenante ("frenatura elettrica a recupero di energia"): in questo caso lo scorrimento è del segno opposto, cioè il motore ruota leggermente più veloce del campo.
In realtà esistono anche motori trifasi sincroni, ma sono di impiego differente perché, per quanto appena esposto, non possono partire da soli, ma richiedono un sistema ausiliario di avviamento. Essi sono stati utilizzati in campo ferroviario, ad esempio in Francia, ma solo in anni successivi, appunto perché hanno bisogno di un azionamento più complesso.
La velocità di rotazione dipende esclusivamente dalla frequenza della corrente, e non, ad esempio, dalla sua intensità, dalla tensione, ecc. Questo è un significativo vantaggio, perché permette di mantenere una velocità pressoché costante al variare del carico, ad esempio del peso del treno o della pendenza (naturalmente entro certi limiti, perché al crescere dello sforzo, cresce la corrente assorbita, il cui valore massimo è limitato dalla costruzione fisica dei circuiti della locomotiva).
È però chiaro che, da un lato, occorre che la velocità di marcia della locomotiva sia scelta in modo coerente con il tipo di servizio che deve effettuare; dall'altro, che di velocità ce ne siano più di una: nel sistema trifase d'inizio secolo si è considerato accettabile avere due velocità di marcia per le locomotive destinate ai servizi merci, mentre risultava auspicabile disporre di quattro velocità per quelle destinate ai servizi viaggiatori.
Per quanto riguarda il primo problema, oggi è facile ottenere la velocità finale di una locomotiva, partendo da quella più consona al motore, utilizzando una trasmissione ad ingranaggi di adeguato rapporto. Si noti a margine che solo nelle automotrici diesel, di potenza relativamente modesta, si usa un cambio a rapporto variabile, come quello delle automobili; in tutti gli altri casi (elettromotrici, locomotive elettriche e locomotive diesel) il rapporto di trasmissione è fisso, e dunque l'intervallo di velocità della locomotiva è legato univocamente all'intervallo ottenibile dal motore.
Quando venne inventato il sistema trifase, nei primi anni del XX secolo, l'uso di una trasmissione ad ingranaggi era sconsigliato per le potenze tipiche della ferrovia, tra l'altro in rapida crescita: dai 440 kW delle E.430 del 1901 si era già arrivati ai 1500 kW delle E.550 di appena sette anni più tardi; la tecnica dell'epoca non era infatti in grado di costruire trasmissioni affidabili, per varie ragioni, legate soprattutto ad un'imprecisa conoscenza dei problemi di risonanza. Era quindi necessario che la velocità angolare del motore fosse la medesima a cui si desiderava che si muovessero le ruote.
A pari velocità angolare, si poteva poi ottenere la velocità di ciascun modello di locomotiva, scegliendo un adeguato diametro delle ruote: più piccole per la modesta velocità dei treni merci, più grandi per i treni viaggiatori.
Rimaneva però il secondo problema, ottenere più di una velocità sulla stessa locomotiva, dunque una volta scelto il diametro delle ruote. Solo le prime due locomotive trifasi del 1901 vennero infatti realizzate con un'unica velocità, pari a 32 km/h (erano le E.430, tra l'altro significativamente differenti da tutte le successive, in quanto senza bielle).
Tenendo conto che nelle macchine trifasi, salvo pochissime eccezioni, i motori sono sempre stati due, un primo modo di ottenere due velocità è quello di collegare i motori in cascata, ovvero facendo sì che la corrente indotta nel rotore del primo vada ad alimentare lo statore del secondo e che i due rotori siano meccanicamente vincolati (tramite le bielle della locomotiva). In questo modo l'unica velocità che si può instaurare è metà di quella originaria; infatti, a causa del vincolo meccanico, i due rotori devono avere la stessa velocità: se il primo rotore gira a velocità dimezzata anche la frequenza della corrente indotta è dimezzata; essa alimenta il secondo statore e quindi la velocità del secondo rotore è la metà.
In questo modo, con le due sole velocità "standard" di 25 e 50 km/h, dal 1908 al 1930, sono state costruite ben 556 locomotive - E.550, E.551, E.554 ed E.570 - pari al 71% di tutti i mezzi trifasi realizzati.
Due velocità sono meglio di una, ma non sono ancora sufficienti per le macchine più veloci, cioè quelle che, nel secondo decennio del XX secolo, ci si aspettava potessero raggiungere i 100 km/h, la stessa velocità che potevano già garantire le migliori locomotive a vapore dell'epoca, come le 630 e le 640.
Il modo più semplice per ottenere più velocità è quello di sfruttare la relazione:
n° giri / min = 2 * 60 * frequenza (Hz) / n° poli
Quindi aumentando il numero di poli del motore è possibile diminuire la velocità di rotazione. Fin qui, infatti, abbiamo didatticamente immaginato di avere 2 poli per fase, cioè 6 totali, ma nulla vieta che siano 4, 6 ecc. (naturalmente in numero pari, a formare coppie di "calamite" Nord-Sud). Il 2 nella formula è dovuto al fatto che si dovrebbero indicare le "coppie polari" e non il numero di poli, che ne è appunto il doppio.
Variare il numero di poli non è troppo difficile, almeno in linea di principio, perché, essendo il motore composto di bobine, è sufficiente modificare il modo in cui esse sono collegate fra loro.
Per capire meglio tutto quanto, consideriamo un caso reale, ovvero l'E.330, prima locomotiva trifase a rispondere in modo soddisfacente alla necessità di avere quattro velocità.
In precedenza, con alcune locomotive valtellinesi si ricorreva a espedienti come moltiplicare il numero di avvolgimenti o addirittura di motori, ma è chiaro come questo comportasse un aumento dei costi e soprattutto un aumento della massa della locomotiva (a pari potenza), con tutti i problemi che ne discendono. L'E.330, invece, sfrutta il principio appena esposto di variare il numero dei poli.
Il rotore è composto da 24 bobine. In effetti qui il motore non è più propriamente trifase, ma polifase, e sono possibili due collegamenti: trifase a 8 poli, corrispondente a una velocità di 75 km/h, e tetrafase a 6 poli, corrispondente a 100 km/h. Infatti l'applicazione della formula dà:
n° giri / min = 2 * 60 * 16,66 Hz / 8 poli = 250 giri al minuto
n° giri / min = 2 * 60 * 16,66 Hz / 6 poli = 333 giri al minuto
La velocità lineare in km/h è quindi data da:
velocità [km/h] = circonferenza [m] * n° giri al minuto * 60 / 1000
Tenendo conto che il diametro delle ruote è di 1630 mm, risulta, rispettivamente a 8 e 6 poli:
velocità = 1,63 * PI.GRECO * 250 * 60 / 1000 = 76,8 km/h
velocità = 1,63 * PI.GRECO * 333 * 60 / 1000 = 102,4 km/h
Applicando uno scorrimento (cioè una riduzione di velocità) del 2%, 76,8 diventa 75,3, arrotondato in 75 km/h e 102,4 diventa 100,4, ovviamente arrotondato in 100 km/h.
Ecco nelle prossime due figure come possono essere rappresentati i poli dell'E.330 nelle due combinazioni.
Rappresentazione schematica del collegamento trifase 8 poli. Per ciascuna delle 3 fasi A, B e C ci sono 8 poli, disposti in 4 coppie di poli opposti. |
Rappresentazione schematica del collegamento tetrafase 6 poli. Le fasi ora sono 4: A, B, C e D, e ciascuna dispone di 6 poli, disposti in 3 coppie di poli opposti. |
Naturalmente la nostra è una rappresentazione schematica: nella pratica occorre che le bobine corrispondenti a ciascun polo vengano correttamente collegate alle altre che ricevono la stessa fase. Per spostare fisicamente i collegamenti si utilizza un combinatore, cioè un'apparecchiatura elettrotecnica che è in grado di collegare tra loro i capi delle bobine, secondo due (o più) combinazioni predefinite. Il problema pratico è che le bobine che costituiscono il rotore ruotano, mentre il combinatore, che è un'apparecchiatura abbastanza complessa e delicata, è bene che stia fermo, cioè che sia montato sulla locomotiva (solo sulle E.331 si sperimentarono dei combinatori rotanti, cioè solidali al rotore, ma appunto con notevole complicazione costruttiva). Con il combinatore fisso, occorre portare i capi delle bobine dal rotore al combinatore, mediante gli anelli collettori, cioè un sistema di anelli, montati coassiali con il rotore, ai due estremi del suo asse, su cui strisciano delle spazzole collegate al combinatore. A questo punto il vincolo tecnico è dato dal numero minimo di capi - e quindi di anelli - necessari per poter commutare i rotori da trifasi a tetrafasi: si tratta quasi di un gioco enigmistico, che nel caso dell'E.330 venne risolto dal tecnico ungherese Maurice Milch, che nel 1910 elaborò uno schema circuitale che richiedeva sette anelli: tre da un lato e quattro dall'altro erano una soluzione tecnicamente realizzabile.
Abbandonato su un prato - come ahimè sembra prassi per il Museo Ferroviario Piemontese - è comunque ancora ben visibile un motore trifase. Verosimilmente appartiene a una E.431, che condivideva lo schema elettrico con le precedenti E.330, e quindi la disposizione con tre anelli collettori da un lato e quattro dall'altro. Al centro, il tratto sagomato a collo d'oca costituiva il perno di manovella per la biella triangolare, il cui peso veniva equilibrato dal contrappeso immediatamente alla sua destra. All'interno del collo d'oca passavano i cavi che arrivavano agli anelli collettori e, da questi, mediante contatti striscianti, al combinatore, che aveva il compito di collegare gli avvolgimenti del rotore in maniera appropriata alle varie combinazioni di marcia. |
Dall'altro lato, si vedono i restanti 4 anelli collettori. Nell'immagine si vede anche il rotore, che, in opera, era circondato dallo statore, con uno spazio libero (traferro) di appena due millimetri: un valore estremamente modesto per le tolleranze costruttive dell'epoca, e tenendo conto delle deformazioni elastiche a cui era inevitabilmente soggetto in moto. |
Naturalmente anche il numero di poli dello statore deve essere adatto a quello del rotore (anche di questo si occupa il combinatore). Unendo questo sistema e quello dei motori in cascata è possibile ottenere le quattro velocità auspicate: 37,5, 50, 75 e 100 km/h, per l'epoca un progresso notevole; le due velocità minori sono ottenute con il collegamento in cascata, rispettivamente nelle combinazioni di poli delle due maggiori.
Tra l'altro l'E.330 era riuscita ad ottenere tutto ciò, contenendo al minimo la massa totale della macchina. Con 73 tonnellate e 1760 kW continuativi (a 75 km/h), si era ottenuta una potenza specifica di 24 W/kg, che era un altro primato mondiale, e che era particolarmente utile sulla rete italiana, caratterizzata, fin oltre la metà del XX secolo, da forti limiti sul massimo carico assiale. Per confronto, una locomotiva a vapore 685, coeva delle E.330, con 124 tonnellate e 920 kW, aveva una potenza specifica di 7,5 W/kg: meno di un terzo! Le E.626, prime macchine a corrente continua, producevano 20 W/kg. Una moderna locomotiva elettrica E.464 arriva a 42 W/kg continuativi, un'E.656 a 35 e un'E.444 a 46.
A questo punto ci si potrebbe domandare perché non aumentare ulteriormente le possibili combinazioni e avere motori, con 6, 8, 10 velocità. Il problema principale sta nell'aumento del numero di bobine, che provoca una crescita eccessiva di pesi e ingombri, e soprattutto di capi dei circuiti da commutare, che arriva ad eccedere lo spazio fisico destinabile agli anelli collettori.
Da quanto detto fin qui, emerge la necessità che la frequenza della corrente sia quella "giusta" per le velocità della locomotiva: storicamente tale frequenza venne fissata a 16 2/3 Hz. Questa frequenza non è quella ordinaria della rete elettrica, ovvero 50 Hz, ma ne è un terzo: alimentando le locomotive a 50 Hz - ovviamente a pari diametro delle ruote e numero di poli - esse avrebbero raggiunto velocità troppo elevate, che non avrebbero potuto sopportare: la velocità di punta dell'E.330 sarebbe stata tre volte tanto, ovvero 300 km/h!
Abbiamo già detto come la soluzione di usare ingranaggi riduttori all'interno della trasmissione fosse sconsigliabile. Non era praticabile in modo banale nemmeno la conversione di frequenza a bordo: per essere agevole, questa richiedeva l'uso dell'elettronica di potenza, all'epoca ben di là da venire.
Tuttavia, la necessità di alimentare la rete ferroviaria ad una frequenza apposita, appunto la cosiddetta frequenza ferroviaria, costituiva oggettivamente una peculiarità scomoda: peculiarità ancor oggi condivisa da tutta la rete tedesca, svizzera e austriaca, che, in corrente alternata monofase a 15 kV, ha ereditato la frequenza ferroviaria dalle prime elettrificazioni immediatamente successive al trifase, come quella del Lötschberg (1913).
Se all'avvento del trifase gli indiscussi vantaggi della trazione elettrica non lasciarono dubbi sull'opportunità di adottare tale sistema, negli anni '20 si iniziò a discutere se fosse opportuno mantenerlo o passare a quello in corrente continua a 3000 V, che si andava sperimentando sulla Benevento-Foggia (elettrificazione completata nel 1928). Fra i due schieramenti, si fece strada una terza ipotesi, quella della tensione trifase a frequenza industriale: idea che poi non ebbe seguito ma che venne proposta come una soluzione di compromesso che avrebbe permesso di usare la rete elettrica standard.
La discussione non era puramente accademica o scientifica, ma era fortemente influenzata da interessi economici contrapposti: in particolare quelli della Westinghouse (poi TIBB), che deteneva praticamente il monopolio della tecnologia trifase, in opposizione agli altri costruttori, che spingevano verso la continua; pesavano inoltre gli interessi delle società elettriche private, che avrebbero guadagnato dal poter vendere la propria elettricità alle ferrovie (che invece fino a quel momento si approvvigionavano da proprie centrali) se fosse stata adottata la frequenza standard.
Si disegnò quindi un quadro transitorio interessante: si decise che per le linee di nuova costruzione nel Nord Italia si sarebbe usato il consolidato sistema trifase 16 2/3 Hz, 3,6 kV (sia perché gran parte di quanto già esistente era in trifase, sia perché questo sistema aveva vantaggi particolarmente evidenti nei tratti di montagna con forti pendenze); nel Sud si sarebbe adottata la continua, mentre la linea Roma-Sulmona venne elettrificata sperimentalmente in trifase a frequenza industriale, con tensione 10 kV a 45 Hz, essendo quello, al tempo, il valore della frequenza nel centro Italia. L'era del trifase a frequenza industriale durò appena 16 anni, dal 1928 al 1944, quando tutta la Roma-Sulmona fu distrutta dalla guerra (e poi ricostruita a corrente continua).
L'E.471 è una locomotiva nata per rappresentare il primo esempio italiano di locomotiva politensione e polifrequenza. Nelle intenzioni del progetto, infatti, essa avrebbe potuto circolare sia sotto trifase a frequenza ferroviaria, sia sotto trifase a frequenza industriale, sia sotto il monofase 50 Hz. Quest'ultimo tipo di elettrificazione era totalmente assente in Italia, ma si stava affermando in altri paesi d'Europa, in particolare in Ungheria.
L'E.471 nasce da un progetto di Kálmán Kandó, ingegnere ungherese di grandissima importanza per la storia della trazione elettrica italiana, realizzato per la CEMSA (Costruzioni Elettromeccaniche Saronno). Nicola Romeo, il proprietario dell'azienda, si lanciò nell'avventura dei 50 Hz convinto che, se questo sistema si fosse affermato, nella versione trifase o in quella monofase che avanzava all'estero, una locomotiva di questo tipo, versatile e già adatta ai nuovi sistemi, avrebbe posto la sua azienda all'avanguardia nelle nuove tecnologie emergenti e le avrebbe garantito un posto di assoluta preminenza nel panorama dell'industria ferroviaria italiana. Anche Kandó condivideva la convinzione della superiorità del sistema 50 Hz, in particolare nella sua versione monofase, alla quale aveva avuto modo di lavorare in Ungheria.
Quando, dunque, vennero commissionate nuove locomotive per la linea Roma-Sulmona, la CEMSA propose la propria E.471. L'idea dell'E.471 quindi era quella di una locomotiva che potesse funzionare con:
Per fare ciò, il motore aveva più possibilità di variare il numero di poli, per un totale di 6 velocità per ciascuna frequenza: a 45 Hz o eventualmente 50 Hz, si usavano solo le 4 più basse (il telaio non era adatto ad affrontare le due superiori), a 16 2/3 Hz le sei velocità erano ridotte a un terzo di quelle risultanti sotto i 50 Hz e quindi si usavano le 4 più elevate, essendo le altre due possibili ma sostanzialmente inutili. In tabella le velocità utilizzate sono in grassetto, quelle non applicabili sono tra parentesi.
Frequenza |   | |||
Collegamento | 16 2/3 Hz | 45 Hz | 50 Hz | Statore |
cascata 24 poli | (12.7) | 33.5 | 38 | esafase |
cascata 16 poli | (19) | 50 | 57 | tetrafase |
24 poli | 25 | 67 | 75 | esafase |
16 poli | 37.5 | 100 | 114 | tetrafase |
12 poli | 50 | (135) | (150) | trifase |
8 poli | 75 | (200) | (225) | bifase |
Per rendere possibile questo risultato, occorreva a bordo una macchina completamente nuova, la convertitrice, che facesse due cose: abbassasse la tensione della linea aerea (10 kV), troppo elevata per alimentare direttamente i motori, e, in caso di alimentazione monofase, trasformasse questa in trifase.
La convertitrice di Kandó era un complicato sistema formato dal rotore e da uno statore con due avvolgimenti: la tensione di linea alimentava l'avvolgimento primario dello statore, questo metteva in moto il rotore (in modo analogo al motore) e il campo magnetico generato dal rotore induceva una tensione nell'avvolgimento secondario, che - dimensionando opportunamente i componenti e soprattutto il numero di avvolgimenti - poteva essere abbassata al valore desiderato e prodotta col numero di fasi necessario.
L'E.471 ebbe tuttavia una sorte sfortunata. Il progetto risultò troppo ambizioso: difficoltà tecniche, in particolare nella realizzazione della convertitrice, rallentarono la produzione e ritardarono le consegne; quando infine il prototipo fu pronto, il risultato era insoddisfacente, in particolare per la scarsa coppia esercitata allo spunto e per la potenza: il fattore di potenza (rapporto fra potenza meccanica prodotta e potenza assorbita) era troppo basso, un problema intrinseco della convertitrice e del suo funzionamento induttivo, che si cercò di minimizzare con una forma particolarmente complessa del dispositivo ma che non fu possibile eliminare del tutto.
Inoltre nel frattempo il quadro esterno era mutato: l'esperimento trifase a frequenza industriale appariva "senza futuro" perché, pur avendo dato risultati tecnici positivi, era ormai crescente il successo della corrente continua, che comportava anche una linea aerea enormemente più semplice (un solo filo). Inoltre si rafforzava la tendenza all'interno delle ferrovie a progettare il materiale rotabile in proprio, piuttosto che affidarne la progettazione al costruttore: bisognerà attendere fino alla fine del XX secolo e alle gare di fornitura internazionali per tornare alla situazione in cui le ferrovie acquistano rotabili (quasi) chiavi in mano.
Sta di fatto che la commessa venne rescissa dalle ferrovie, lasciando la CEMSA in gravi difficoltà economiche che portarono infine alla cessazione della produzione ferroviaria.
L'unico esemplare E.471 realizzato (dei 10 inizialmente previsti) rimane come testimonianza di un'impresa ambiziosa, in un momento complesso in cui si affrontavano scelte decisive per la storia delle ferrovie italiane.
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